Ho avuto l’opportunità di visitare Yangon tre volte negli ultimi quattro anni, grazie al lavoro che ho svolto nell’ambito della cooperazione tra le autorità locali di Torino e Yangon, città che mantengono relazioni di scambio di know-how su temi di gestione di servizi su scala metropolitana, con rapporti commerciali e culturali intensi, dimostrando di aver accolto in pieno la lezione della cooperazione decentrata.
È quasi banale affermare che Yangon sia cambiata e continui a cambiare. Alcune cose che prima c’erano ora non ci sono più e viceversa; altre cose che erano invisibili sono diventate visibili. La città si è decisa a mettersi allo scoperto per liberarsi dai soliti clichés (senza ancora averne trovati di nuovi) finendo col sedurre il visitatore in modo irresistibile. In questi quattro anni non è solo cambiata Yangon, è cambiato anche il mio modo di osservarla.
Ho raccolto la sua richiesta di raccontarla, di descriverla, riportando, senza un itinerario preciso, le sensazioni generate da luoghi, monumenti, abitudini, nell’ultimo mio viaggio, lo scorso aprile, partendo dal ponticello (un sovrapassaggio dotato anche di moderne scale mobili) che unisce il Bogyoke Market al nuovissimo e gigantesco centro commerciale, Junction City. Un nome importante, un ingombro architettonico che vuole porsi come congiunzione tra le lacche tradizionali e i longjee del Bogyoke e lo sfavillio delle boutique in stile europeo, gli ascensori, gli slogan “Hello Yangon!” e “I love YGN” sulle vetrine.
Campeggia un’enorme immagine di una ragazza bionda che sfoggia una borsetta italiana e dice “opening soon”. Al cinema del Junction ho visto il film di produzione nazionale First Floor Honeymoon; poi ho ripercorso il ponticello e ho ceduto alla tentazione di comprare le lacche nel Bogyoke Market. I due mercati, in fondo, non si fanno concorrenza, e i residenti di Yangon tirano un sospiro di sollievo, perché non devono più andare a Singapore per fare shopping.
Il traffico resta insopportabile, ma sembra meno devastante rispetto a due anni fa. Forse è merito dei semafori, installati con il sostegno della cooperazione internazionale, che riescono, con il rosso, a liberare Maha Bandoola Road dalle auto anche per una decina di secondi. Vedo un ciclista solitario che avanza senza ostacoli nella strada libera dalle auto, scena inimmaginabile solo fino a poco tempo fa.
Quanto agli ambulanti, questi non si vedono più. Prima invadevano i marciapiedi, annullavano lo spazio per camminare e ci si ritrovava spinti in mezzo alle auto che sputavano fumi neri, bloccate negli ingorghi. Ho chiesto qualche spiegazione in merito, ma non è chiaro dove siano finiti. “Si sono spostati nelle vie laterali”, mi viene risposto, “è successo l’anno scorso, in seguito a una decisione impopolare delle autorità cittadine, fu un momento difficile”. Io stesso non me n’ero accorto subito. Dopo i primi due giorni intensi di lavoro ero finalmente riuscito ad andare nella fascinosa Merchant Road, e, uscendo dalla libreria Sarpay ho improvvisamente visto un passante camminare verso di me sul marciapiede, senza che avesse bisogno di scansare nessuno. In quel momento mi sono accorto che vedevo il marciapiede, vedevo i passanti e che loro vedevano me, mentre prima era solo uno scontrarsi, uno stringersi tra zampe di gallina, teste mozzate di pesci, locuste fritte, boxer firmati Calvin Kelun, facendo attenzione a non scivolare sui liquami.
Le architetture di inizio novecento si spogliano volentieri dei veli che prima le nascondevano. Facciate con delicati timpani, bifore e finestroni simil-barocchi, capitelli corinzi, palazzine razionaliste, o case che, aggiunta dopo aggiunta, sono arrivate a totalizzare otto piani, ognuno con il suo colore: dall’ocra all’azzurro, al rosso mattone britannico, al turchese levigato dalle piogge, che si sposa con il verde delle foglie degli alberi e delle muffe che dimorano nei muri. L’habitat è intriso di antenne paraboliche, insegne, fasci pietrificati di cavi dell’alta tensione. Sulle facciate sono scolpiti i nomi cui sono intitolati gli edifici: Ariff, Naikwara, Neogi.
Il treno urbano è fatiscente, ma procede e sarà presto oggetto di investimenti consistenti per la sua modernizzazione: un anello di 45 km che poche metropoli al mondo possono vantare, con 39 stazioni e tanti passeggeri. Nei vagoni tutte le norme di comportamento, i prezzi dei biglietti, le uscite e le entrate sono scritti in giapponese. Non posso non collegare questi vagoni con le auto che circolano in città, tutte importate dal Giappone. A Yangon si tiene la destra della carreggiata come in Europa continentale, ma le auto hanno il posto del guidatore a destra, come in Giappone. É così che pezzi obsoleti di Tokyo ritrovano piena dignità a Yangon senza bisogno di adattamenti.
Percorrendo il ring ferroviario in senso antiorario, scendo a Pan Hlaing per andare nel quartiere degli intagliatori di pietre: case basse, con piccoli giardini – la mia presenza suscita qualche sguardo, ma nessuna sorpresa. Mi siedo, stanchissimo, in una specie di bar alloggiato in una casetta di legno; tutti i clienti guardano ipnotizzati lo schermo del televisore che trasmette un film americano di genere fantasy. Mi portano acqua fresca, pollo e riso, una benedizione rispetto al caldo torrido là fuori. Spendo un migliaio di kyat, circa 65 centesimi di euro.
La Lower Kyimyindine Road non è nota ai turisti; qui è tutto un susseguirsi di botteghe dove lavorano giovani e giovanissimi incisori, accoccolati sulle ciabatte infradito e impegnati a scrivere con lo scalpello su pietre scure o a produrre una sorta di lampadari dorati, composti di cerchi concentrici. È domenica ma tutti lavorano: qui la città segue la sua vocazione e non si pone il problema di doversi adattare a un qualcosa di nuovo che forse sta arrivando.
Grazie alla nuova App YBS del Yangon Bus Service prendo anche il bus: per 200 kyat di biglietto (13 centesimi di euro) mi avventuro a nord dove visito il Buddha dormiente, poi di nuovo a sud dove giro pagina e scopro una Yangon armena con la chiesa di San Giovanni. Poi, andando verso Chinatown, trovo la mirabile sinagoga, costruita dai sefarditi di Baghdad e che oggi è frequentata da una ventina di persone. Tornando verso la Sule Pagoda, sfilano le moschee di origine indiana: nell’intervallo fra le due guerre mondiali gli inglesi avevano bisogno di lavoratori “motivati” e favorirono il trasferimento di famiglie bengalesi in Myanmar.
Sul lungofiume, il fascino dello Strand splende immutato, dopo una lunga e ricca ristrutturazione da poco conclusa. Intorno agli anni ’50, l’economista francese Tibor Mende, grande esperto di Asia e di estremo oriente, diceva che era l’unico hotel veramente moderno della capitale birmana, ma aggiungeva che, ad eccezione del simbolico miscuglio dei tempi andati e di quelli nuovi, tutto, a Rangoon, produceva un’impressione di lenta decadenza; i baraccamenti invadevano la città come per restituirla alla giungla, e gli edifici sembravano già allora rassegnati a perdere, l’uno dopo l’altro, il loro prestigio.
La decadenza di sessanta anni fa per moltissimi versi è intatta e mette in mostra senza pudore povertà, arretratezza, esclusione, difficoltà ambientali apparentemente irrisolvibili. Eppure da dieci anni a questa parte la ridefinizione di ruoli e funzioni, sottesa al momento particolare di incontro e confronto tra portatori di interessi diversi, non conosce soste. Il processo riguarda tutto il Myanmar ed è visibile in modo prepotente a Yangon. Il settore privato vuole trasformare e investire; il settore pubblico vuole riappropriarsi del ruolo di portavoce legittimo e legittimato delle istanze dei territori; la società civile scopre di poter parlare; last but not least, la cooperazione internazionale agisce in tante direzioni e ha, anch’essa, le sue priorità.
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