Il ruolo dei “corridoi economici”
In linea generale, dalla costituzione dei “corridoi economici” ci si aspetta che contribuiscano alla promozione dell’integrazione regionale de facto (la quale si differenzia all’integrazione de iure guidata dai trattati e da accordi a livello governativo) e all’accelerazione sia delle dinamiche dell’agglomerazione e della dispersione sia dei risultati economici reciprocamente vantaggiosi.
Poiché un corridoio economico registra risultati nel corso del tempo, in generale i suoi impatti dinamici apportano i benefici dell’integrazione in maniera sproporzionata agli snodi esistenti, fintantoché i benefici dell’agglomerazione (economie di scala e transazioni commerciali collegate al risparmio) hanno un peso maggiore dei costi (congestione, inquinamento urbano, ecc..). Successivamente, quando i costi dell’agglomerazione superano i benefici, le dinamiche del corridoio economico imprimono una dispersione delle attività economiche al di fuori degli snodi esistenti (cfr. la sezione superiore della Fig. 1), conducendo alla propagazione di benefici che si andranno ad accumulare realmente nelle città intermedie che sorgono lungo il corridoio (cfr. la sezione inferiore della Fig. 1). Favorire lo sviluppo di un corridoio economico attraverso la costruzione di infrastrutture fisiche (strade, ponti, ferrovie, etc..), così come rendere agevoli e operazioni di dogana e del passaggio dei veicoli (alcune delle cosiddette agevolazioni istituzionali) garantirebbe la creazione di queste dinamiche (cfr. il passaggio dalla linea continua alla linea tratteggiata nella Fig. 1).
Nel contesto globale dei corridoi economici in cui la Cina è coinvolta, la Banca Mondiale ha analizzato vari aspetti dei progetti della Belt and Road Initiative (BRI) che coinvolgono 71 Paesi[1]. Il messaggio di fondo contenuto in questa analisi intende dimostrare che i corridoi infrastruttuali riescono a migliorare di molto il commercio, gli investimenti esteri e le condizioni di vita dei cittadini dei Paesi coinvolti nella ricerca della Banca Mondiale, ma solo nel caso in cui la Cina e le altre economie adottino profonde riforme politiche che incrementino la trasparenza e rendano il debito più sostenibile. Tuttavia, è anche bene chiarire che i grandi progetti infrastrutturali possono generare una serie di rischi di carattere politico, sociale e ambientale, inclusa la corruzione, anche se essi variano a seconda del progetto di corridoio economico messo a punto e in base alla qualità delle istituzioni nazionali.
Fig. 1 – Le dinamiche di agglomerazione e dispersione, nonché i risultati attesi associati ai corridoi economici e all’integrazione regionale (elaborazione grafico: Fujimura e Potapohn).
I contesti narrativi del CMEC
La buona realizzazione dello sviluppo di un corridoio economico dipende inevitabilmente dal contesto specifico all’interno del quale i possibili risultati citati nel paragrafo precedente si realizzano. Qui cercheremo di raccontare due narrative parallele – una ottimistica, l’altra pessimistica – risultato del nosto viaggio di lavoro del marzo 2019 a Myitkyina, lungo il China-Myanmar Economic Corridor (CMEC).
Una narrazione ottimistica
La strada che va da Mandalay al confine con Muse appare significativamente ristrutturata dalla nostra ultima visita sei anni fa. La strada da Mandalay a Pyinoolwin è stata quasi totalmente rinnovata con quattro corsie ben asfaltate, tant’è che è stato facile per un’auto veloce sorpassare camion e trattori che viaggiavano a bassa velocità.
Sembra che la città di Pyinoolwin sia cresciuta velocemente grazie agli investimenti in denaro dei cinesi, come è possibile notare dai negozi di smartphone dove risaltano le insegne di note marche cinesi come Oppo e Vivo (le stesse osservate lungo il tragitto). Proprio in virtù del basso costo dei telefoni mobili importati dalla Cina, gli standard di vita dei consumatori locali sono aumentati significativamente.
Abbiamo intervistato un imprenditore locale di etnia cinese, proprietario a 73 anni di un magazzino all’ingrosso e di varie altre attività nel centro di Pyinoolwin. È nato a Bhamo, una località che si trova tra Muse e Myitkyna, figlio maggiore di una famiglia emigrata dalla prrovincia cinese dello Yunnan. Questo imprenditore ha frequentato la scuola pubblica fino all’età di 16 anni, finché la sua carriera scolastica non è stata interrotta dal regime militare, anticinese, di Ne Win installatosi nel 1962, il quale ha confiscato i beni e le proprietà immobiliari dei suoi genitori. Oggi commercia in gran quantità legname, zucchero, cocomeri, riso, pesce e molto altro, tutti esportati verso la Cina. Ci ricorda che la popolazione di Pyinoolwin contava meno di 50 mila abitanti, ma nel corso del tempo è cresciuta fino ad arrivare a 300 mila.
Sulla via che da Thibaw conduce a Lashio, ci capita di intervistare una giovane coppia proprietaria di una azienda agricola che coltiva angurie. Il marito, 24 anni, è di etnia Shan e viene da Namkam. Ha iniziato a lavorare in una azienda di coltivazione di angurie, di proprietà probabilmente di un cinese, quando aveva 13 anni. Ha imparato da solo come coltivare i cocomeri e solo recentemente ha preso in affitto un terreno di 13 acri dove ha avviato la sua attività con la moglie. Ci rivela che, per via dell’aumento dei traffici dalla Cina, sono spuntate nuove aziende di coltivazione dei cocomeri tra Thibaw e Lashio. Con una maggiore disponibilità di pompe e condutture di irrigazione importate dalla Cina, è diventato più semplice coltivare le angurie nei pendii collinari della zona. Questo è un chiaro esempio di come la popolazione locale abbia ottenuto un beneficio netto dalla connettività stabilita dal CMEC.
La città di Lashio sembra più sviluppata rispetto alla nostra ultima visita nel marzo 2012, con molte attività commerciali dall’aspetto raffinato e hotel – allora molto pochi – molto confortevoli. Soprattutto, le strade abbondano di insegne in lingua cinese. Nel mercato del centro città si vendono articoli casalinghi “Made in China” e mele appena colte, pere, mandarini e altri frutti importati dal Paese vicino. Un fioraio ci ha detto che i fruttivendoli si procurano la merce dalla Cina, attraverso il confine con la città settentrionale di Muse. Anche questi negozi e mercatini di successo a Lashio rientrano nella casistica di esempi in cui i residenti locali, siano essi di etnia cinese o meno, avrebbero visto i loro standard di vita crescere grazie all’integrazione economica con la Cina.
A circa 10 chilometri dalla città di confine di Muse, vediamo all’orizzonte il “105 Mile Point” o, formalmente, il “Ministero del Commercio”. Le 105 miglia (corrispondenti a circa 170 chilometri) segnano la distanza dalla città di Lashio. Al di là della principale area commerciale sorge un altopiano elevato dove si tengono gli scambi di prodotti agricoli locali che sono esportati in Cina. Quando lo visitiamo nella mattinata, il luogo è letteralmente inondato di numerosi autocarri sui quali sono caricati angurie e meloni.
Questi camion carichi di frutta entrano ed escono alternativamente per completare le transazioni e siglare un accordo tra venditori e compratori. In media, all’interno dell’area commerciale fanno il loro ingresso tra i 400 e i 500 autocarri al giorno. Gli acquirenti sono tutti cinesi provenienti dalla provincia di Hainan, dalla regione autonoma del Tibet e dalle province nord-orientali della vicina Repubblica Popolare Cinese. Tra i 400 e i 500 operatori prendono parte ogni giorno alle transazioni commerciali. Apparentemente, ci sembra che esista un’equa divisione della frutta venduta tra le bancarelle dei produttori locali e la crescente richiesta di quei prodotti da parte dei cinesi è stata una manna per la popolazione birmana dell’area.
Il commercio di bovini è un caso distintivo delle opportunità commerciali di nuovo sviluppo che si sono venute a creare grazie al CMEC. Il Myanmar è rinomato per essere fonte sicura di approvvigionamento di bovini a basso costo del Sud-Est asiatico continentale. La tracciabilità elettronica – come il marchio auricolare e la “Radio Frequency Identification” – e la riforma della regolamentazione hanno rinnovato il commercio del settore, nonché una porzione della catena di distribuzione in Thailandia. Recentemente, una simile modernizzazione si è avuta a seguito della legalizzazione dei movimenti del bestiame all’interno del Myanmar. Nel caso del CMEC, le principali criticità sono state risolte con l’introduzione di un protocollo di controllo del commercio, che ha già attirato investimenti nei mattatoi (provenienti, ad esempio, da una società fondata nella città cinese di Ruili, quotata alla Borsa di Shenzhen) e un’azienda di allevamento stabilitasi, a quanto si dice, a Mandalay. Le agenzie del governo birmano, assieme alle associazioni di categoria, stanno sperimentando alcuni sistemi che permettono di mettere in quarantena il bestiame prima della spedizione, in modo da garantire controlli veterinari standard e, allo stesso tempo, migliorare la catena di distribuzione logistica. Si tratta di una grande sfida in quanto lo sforzo annovera parecchie difficoltà che permettono al paradigma “one health” (che si riferisce all’integrazione della salute dell’animale, dell’ecosistema e dell’uomo). Probabilmente, tale esperimento è stato avviato agli estremi confini del Paese dove la capacità amministrativa e la legittimità sono tuttora affidate alla popolazione locale.
Sebbene il progressivo sviluppo del commercio di bestiame sia contraddistinto da significative perplessità, il caso qui esposto presenta alcune importanti premesse per un risultato reciprocamente vantaggioso, ma solo qualora si presti particolare attenzione ai cambiamenti istituzionali.
Una narrazione pessimistica
Rimandando all’opera di Han Tun per le osservazioni citiche e la eloquente narrativa sul CMEC[2], qui proveremo a tracciare le nostre osservazioni frutto della visita nello stato di Kachin.
Myitsone si trova a 43 chilometri a nord di Myitkyna. Questo luogo è salito alla ribalta delle cronoache internzionali per l’incidente occorso a una grossa diga progettata con l’aiuto cinese – la struttura dovrebbe infatti produrre energia idroelettrica che sarà venduta alla Cina – ma la cui costruzione è stata sospesa nel 2012 per decisione del presidente Thein Sein in risposta a una forte opposizione della popolazione locale. La strada da Myitkyna a Myitsone è stata messa a nuovo grazie all’assistenza cinese e si viaggia in maniera abbastanza scorrevole. Lungo la via vediamo spordiche piantagioni di gomma naturale destinata al mercato cinese, nonché gli uffici locali della China Power, un’azienda di Stato cinese, e l’entrata dell’ufficio della State Power Investment Corporation (SPIC), una sussidiaria della China Power.
Myitsone si caratterizza per essere un punto in cui confluiscono due fiumi, il Mali e il Hpungmai, che si incontrano per dare origine al fiume Ayeyarwaddy. Il luogo regala uno splendido paesaggio naturale ed è diventata una metà turistica nel 1994, subito dopo il cessate il fuoco tra il Tatmadaw e il Kachin Independence Army (KIA). L’accordo di pace è stato tuttavia violato nel 2011, a seguito della ripresa delle ostilità, ma ancora oggi quello splendido scenario è visitato dai turisti, soprattutto cinesi.
Proprio lì sono sorti molti negozi di souvenir, alcuni dei quali vendono oggetti di artigianato e marmellate e confetture di frutta prodotte dalle donne del luogo, che sono state ricollocate nei villaggi limitrofi dopo l’incidente alla diga. Un negozio vende T-shirt con su scritto “No alla diga”.
La ragione per cui i residenti si sono opposti alla diga con tanta determinazione è che il punto di confluenza dei due fiumi in cui la diga è crollata ha una valenza spirtuale. I residenti credono che ivi risiedano gli spiriti ancestrali che li proteggono da generazioni, rendendo il luogo inespugnabile. Tale sentimento trova rappresentazione in un memoriale di pietra, costruito nel 2015 in fondo al viale commerciale, sul quale è incisa la storia della sacralità del luogo.
Siamo riusciti a raccogliere una testimonianza di una donna che rappresenta i residenti ricollocati nei villaggi attorno a Myitsone. Nell’ultima fase di governo del generale Than Shwe, tra il novembre 2010 e il marzo 2011, circa 3 mila persone che vivevano in 13 villaggi localizzati nelle vicinanze del bacino idrico della diga sono stati costretti a trasferirsi in due nuovi villaggi appositamente costruiti dalla China Power (registrata, nominalmente, come azienda nazionale birmana). L’azienda ha fatto ricorso a ogni forma di persuasione per convincere le persone dislocate a trasferirsi nelle aree vicine: prima ci si è rivolti agli amministratori di villaggio, poi è stata la volta del comandante in capo del Myanmar settentrionale del Tatmadaw. Infine, il processo di ricollocamento è terminato con la chiusura delle scuole e degli ospedali e nessuna di quelle persone ha ricevuto una compensazione economica, se non la garanzia di trasferirsi in una’altra zona. Inoltre, le abitazioni nei nuovi villaggi sono state costruite con materiali di scarsa qualità, con il risultato che i proprietari sono stati costretti a ricostruirsene da soli di nuove.
Successivamente, abbiamo visitato uno dei tre villaggi che hanno patito l’espropriazione delle terre per fare spazio a una piantagione di banani collocata a 7-8 chilometri a sud-est dal centro di Myitkyna. Siamo stati condotti da un gruppo di abitanti che sono stati ricollocati a forza. Si tratta di contadini di tre villaggi che insieme hanno organizzato nel 2014 una protesta contro la piantagione di banani per far sentire la propria voce.
Già nel 1998, avevamo fatto visita a 136 famiglie di un villaggio che sono stati ricollocati altrove. Questo gruppo ci ha detto che il Tatmadaw li ha espropriati delle loro terre facendo ricorso ai bulldozer, sostenendo che i terreni in cui stavano lavorando sono da considerarsi “liberi”, malgrado la documentazione in possesso dei proprietari mostrassero il contrario. Soltanto un ristretto numero di quegli abitanti ha ottenuto una compensazione, mentre buona parte non è stata risarcita.
I lavoratori addetti alla raccolta non sono del luogo ma provengono da alcune regioni del Myanmar settentrionale, come Sagain e Rakhine, e sono disposti a trasferirsi in cerca di un lavoro e di guadagni. Sono impegnati dalle 7 alle 11 e da mezzogiorno alle 16 e a fine giornata riescono a racimolare all’incirca 5 dollari. Nelle piantagioni di banani il picco della stagione si raggiunge tra marzo e maggio e proprio durante questo periodo riusciamo a osservarli nel corso delle loro mansioni. I caschi di banane sono portati in un punto di carico e qui vengono dapprima separati (all’incirca, 10-20 pezzi per casco) e ogni casco viene lavato in un grande tanica piena di acqua e, successivamente, immerso in un’altra tanica contenente liquido antisettico. Dopo che le banane di cattivo aspetto sono identificate e smistate, gli operai le impacchettano dentro le scatole di cartone che sono caricate sui furgoni per essere trasportate in Cina attraverso Kanpiketi, città birmana al confine con la Cina.
Le buste di plastica sparse attorno al punto di carico indicano che i fertilizzanti chimici sono stati prodotti dalla Sinopec, una grande azienda cinese. I teloni protettivi provengono da un’azienda chimica del Fujian. Sfortunatamente non abbiamo potuto identificare i pesticidi utlizzati nella piantagione, ma secondo i media locali in lingua inglese il fiume Nam Lone, che bagna più di 30 villaggi incluso quello in cui ci trovavamo, è stato contaminato dai residui dei pesticidi causando la morte di molti banchi di pesci.
Un’intervista con un attivista locale ci rivela che l’espropriazione terriera nello stato di Kachin avviene tipicamente allorché investitori cinesi si alleano con imprenditori locali. Circa la metà dei casi vede coinvolte le milizie armate locali. La coltura tissutale delle banane praticata da imprenditori cinesi in Myanmar è vietata in Cina a causa dell’uso intensivo di pesticidi dannosi. In pratica, le compagnie cinesi stanno esportando queste pericolose attività all’estero, per poi reimportare “legalmente” il raccolto per accontentare il consumatore cinese.
Particolarmente vulnerabili all’espropriazione terriera nelle aree di conflitto come lo stato di Kachin sono i sistemi consuetudinari di proprietà fondiaria, che devono essere abbandonati dai profughi a causa delle loro condizioni precarie. Quando gli sfollati lasciano queste terre, il governo centrale, il Tatmadaw e gli imprenditori con interessi personali possono rivendicarle per sé, mettendo a punto una serie di progetti.
Di fronte a questa chiara ingiustizia, il meglio che le vittime, i loro legali e alcuni media possono fare è di far sentire la propria voce – attraverso, ad esempio, l’invio di lettere ufficiali di condanna – davanti al primo ministro dello stato, al presidente dell’Unione e alle organizzazioni non governative (ONG) internazionali.
Una via di uscita
Ci sono segnali che indicano come l’integrazione regionale seguita alla creazione del CMEC possa generare significativi guadagni economici. In realtà, bisogna aggiungere che i regolamenti istituzionali non sono sempre in grado di assicurare un’equa distribuzione di tali guadagni. Infatti, non manca l’evidenza aneddotica che mostra situazioni negative che colpiscono la vulnerabile popolazione locale.
Quanto al Myanmar, il Paese non è ancora completamente sviluppato e l’autorità centrale non è in grado di dirigere le attività economiche nel quadro del CMEC, al fine di avviare uno sviluppo equo e sostenibile nella regione. Da parte cinese, il governo di Pechino sembra aver lasciato i fugaci investitori del settore privato liberi di operare senza regole nella zona birmana del corridoio, formalmente nel nome dello sviluppo regionale, sfruttando la provincia dello Yunnan come la porta d’ingresso del Sud-Est asiatico nell’ambito della BRI. Tutte questi fattori istituzionali hanno insieme condotto a una complessa rete di interessi acquisiti che sfruttano le risorse agricole del Myanmar in maniera, apparentemente, non troppo tollerabile.
Le conclusioni di questo articolo intendono stimolare ulteriori ragionamenti analitici e discussioni relative al passaggio da una situazione di status quo a una di equilibrio efficiente, altrimenti detto “ottimo paretiano”, nel quale i guadagni aggregati derivanti dall’integrazione economica sono distribuiti in modo che nessun individuo veda la propria situazione peggiorare. Le forze di mercato possono, in linea di principio, indurre cambiamenti istituzionali per migliorare lo stato delle cose, purché questi siano però regolati da un sistema trasparente di diritti di proprietà. Riteniamo, da una parte, che non sia necessaria una rivoluzione che sovverta le istituzioni esistenti, dall’altra, che una discussione aperta su questo tema potrebbe dare un impulso verso la direzione desiderata. Tale impulso potrebbe partire dalla condivisione di un modello o di una matrice con le quali gli stakeholder possano lavorare e sulle quali negoziare, come è possibile vedere nella tabella da noi proposta (cfr. Tab. 1). Agenti esterni e osservatori interessati possono colmare il divario nel punto in cui gli stakeholder coinvolti direttamente non si dimostrano all’altezza.
Traduzione a cura di Raimondo Neironi
Tab. 1 – Come migliorare la connettività del CMEC
Assunti di fondo:
Elaborazione tabella: Fujimura e Potapohn
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[1] World Bank (2019), “Belt and Road Economics: Opportunities and Risks of Transports Corridors”, Washington D.C, il report è disponibile online al sito https://www.worldbank.org/en/topic/regional-integration/publication/belt-and-road-economics-opportunities-and-risks-of-transport-corridors.
[2] Han Tun N. (2019) China-Myanmar Economic Corridor and the Dispossession of Customary Land Tenure Rights and Livelihood of Ta’ang Tea Farmers in Northeast Myanmar, MA Thesis in Social Science, Chiang Mai University, Thailand.
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