Nell’ultimo decennio organizzazioni umanitarie internazionali come la Croce Rossa Internazionale e Medici Senza Frontiere hanno dimostrato un crescente interesse per la violenza urbana, riflettendo sulle implicazioni di queste nuove sfide nelle loro pubblicazioni e lanciando progetti pilota in diverse città del Sud e Centro America. Interventi occasionali di organizzazioni umanitarie in situazioni diverse dalla guerra non sono di per sé una novità assoluta. Ciò che attrae l’attenzione è però la sistematicità e concertazione con cui accademia, think tanks, organizzazioni internazionali e organizzazioni umanitarie stanno affrontando il tema della violenza urbana, costruendo e aprendo nuovi spazi umanitari.
È quindi intrigante esplorare come venga giustificata o motivata questa espansione dell’area d’intervento delle organizzazioni umanitarie. Questa nuova traiettoria d’interventi si appoggia infatti su una serie di particolari presupposti e fornisce una specifica lente analitica attraverso cui la violenza urbana viene inquadrata. In particolare, vengono spesso citate due tendenze su scala globale per spiegare l’emergenza alla base di questi interventi: un rapido e stravolgente processo di urbanizzazione e la fine delle guerre statali con l’emergere di nuove forme di violenza e conflitto.
Tipico punto d’inizio delle riflessioni riguardo la violenza urbana è che dal 2008, secondo le stime di UN Habitat, la maggioranza della popolazione mondiale vive in zone urbane per la prima volta nella storia. Staremmo quindi assistendo a un processo di urbanizzazione di dimensioni epocali, trainato dai paesi in via di sviluppo e dalle loro principali grandi città. A caratterizzare questo processo sarebbe l’ammassarsi di insediamenti spontanei e precari a causa della velocità, delle dimensioni del fenomeno e dell’incapacità o assenza di volontà da parte degli stati di gestire questi flussi migratori. Intorno a questo processo di urbanizzazione si è costruito un particolare immaginario che viene ben catturato nel titolo del libro Il pianeta degli slum di Mike Davis, che ha ricevuto ampia distribuzione anche fuori dai circoli accademici. Il secondo argomento sostiene che i conflitti contemporanei siano diversi da quelli del passato in quanto spesso motivati da interessi criminali ed economici piuttosto che da appartenenze politiche, rendendo difficile distinguere i vari attori coinvolti e con forti ripercussioni sulla popolazione civile.
La narrativa dominante vede il sovrapporsi di questi due processi di cambiamento far sì che certe città o certe aree urbane – dove lo stato è più debole o assente e dove si concentrano le fasce di popolazione più povere – diventino la nuova frontiera della violenza, il centro di sanguinosi conflitti criminali. La violenza urbana viene quindi rappresentata come la nuova emergenza da affrontare rispetto alla quale le organizzazioni internazionali umanitarie non possono rimanere indifferenti. Essa viene descritta come il cocktail micidiale di una serie di condizioni strutturali e delle scelte razionali di singoli individui.
Questa inquadratura del fenomeno della violenza urbana viene raramente messa in discussione, servendo solo come premessa a dibattiti su come si dovrebbe intervenire o sulle conseguenze degli interventi. Tuttavia, nonostante il poco spazio spesso dedicato a questi due argomenti, essi hanno un ruolo fondamentale. È infatti imprescindibile per la costruzione e apertura di nuovi spazi umanitari che la violenza urbana venga rappresentata come un’emergenza che metta a rischio la sicurezza umana di molti. Vi sono però un numero di criticità in questa rappresentazione con cui è doveroso confrontarsi.
Riguardo al processo di urbanizzazione sorgono una serie di problematicità per il ruolo riservato agli stati e l’idea che sia fondamentalmente un processo disordinato e anarchico. Due paradigmi fortemente radicati nella cultura e storia politica occidentale influenzano in modo decisivo la descrizione del fenomeno: lo stato d’anarchia descritto da Hobbes e lo Stato weberiano, detentore del monopolio legittimo dell’uso della forza. Valutazioni sulla fragilità statale e sulla scarsa volontà o capacità delle istituzioni politiche formali di gestire l’espansione dei centri urbani portano immediatamente a conclusioni circa la pericolosità di questi insediamenti informali. Dove non vi è stato si assume vi sia anarchia e regni la violenza. Oltre a essere una rappresentazione stigmatizzante nei confronti delle fasce più marginalizzate, questa narrativa è anche empiricamente e storicamente infondata. Non esistono quartieri sotto il benigno controllo dello stato e altri abbandonati all’anarchia. Piuttosto vigono ordini politici informali il cui sviluppo più o meno violento dipende anche dalla relazione tra attori non statali e lo stato stesso. Inoltre, in America Latina lo stato continua a essere uno dei principali attori nell’uso illegittimo della violenza e ha storicamente sempre convissuto con altri attori sociali e politici a cui veniva permesso e delegato l’uso della forza. Non tutti i quartieri informali sono ugualmente violenti ed è difficile pensare di poter comprendere la violenza urbana considerando lo stato solo in quanto assente. Tali precisazioni assumono particolare rilevanza dal momento in cui l’intervento delle organizzazioni internazionali umanitarie in zone diverse dalla guerra dipende, almeno da un punto di vista formale, dal consenso dello stato ospitante. Sorge allora spontanea la domanda di quale sia il grado di libertà reale di cui possono godere le organizzazioni umanitarie che decidono di intervenire in questi contesti.
Riguardo la forma della violenza, il caso delle gang ben esemplifica quali siano i limiti di una criminalizzazione della violenza urbana. Il lavoro di diversi antropologi ha messo in evidenza come l’evoluzione delle strutture delle gang sia sicuramente intrecciata all’economia criminale e allo sviluppo dei mercati della droga, ma anche ad altri fattori, e come essa abbia svolto un’importante funzione sociale e identitaria: essa viene ritualizzata e utilizzata sotto uno stretto controllo sociale per costruire un senso di appartenenza e la scelta individuale di entrare in una gang è difficilmente riducibile a puri calcoli economici. Inoltre, la storia dello sviluppo delle gang in America centrale è strettamente connessa a scelte politiche autoritarie e repressive che, criminalizzandole e attaccandole, hanno costretto le gang a riorganizzarsi per nascondersi e difendersi, mettendo anche in contatto i loro membri con altre realtà criminali nelle prigioni. C’è ormai un ampio consenso nel riconoscere che le politiche di Mano Dura con cui governi di destra hanno vinto elezioni basate sulla paura, abbiano giocato un ruolo fondamentale nel determinare una trasformazione di tipo criminale delle gang. Come già sottolineato, piuttosto che assenza di stato, vi sono spesso ordini politici ibridi, per lo più informali, con cui gli attori esterni e lo stato stesso devono decidere come interagire. Sicuramente esiste anche una violenza con scopi lucrativi e criminali, ma anche in questa fattispecie è possibile capire le sfaccettature del fenomeno solo se considerato da una prospettiva storica e politica e non puramente economica. Inoltre, la violenza urbana è un fenomeno vasto che si diffonde però nell’immaginario attraverso gli episodi eccezionali che vengono spettacolarizzati. La violenza domestica, le espulsioni, gli abusi da parte di forze dell’ordine, gli assassinii politici rimangono in secondo piano. In questo contesto, ridurre la violenza urbana a un fenomeno criminale è di per sé un atto politico rispetto a cui le organizzazioni internazionali umanitarie devono interrogarsi.
In sintesi, la rappresentazione che viene data della violenza urbana da parte delle organizzazioni internazionali umanitarie tende a depoliticizzare il fenomeno. Inquadrata in questi termini la violenza urbana è un’emergenza che sorge da anomalie che verranno superate attraverso lo sviluppo dei paesi coinvolti che, una volta rafforzatisi economicamente e politicamente, saranno capaci di gestire meglio questo problema. Per loro stessa natura è ovvio che tali organizzazioni si preoccupino in primo luogo delle conseguenze piuttosto che delle cause della violenza, tuttavia la decisione di intervenire dipende da valutazioni circa la sussistenza o meno di emergenze umanitarie. È importante allora che ci si interroghi seriamente sul perché questi interventi siano necessari e non solo sul come condurli. Dalla risposta dipende la direzione in cui tali interventi andranno e la possibilità per attori locali di cooptarli nelle loro narrative. Il lavoro delle organizzazioni umanitarie è fondamentale per riuscire a garantire livelli minimi di sicurezza umana e il loro interesse per la violenza urbana può trasformarsi in una grande occasione per le comunità locali, dando loro l’ossigeno necessario per riuscire a organizzarsi e far sentire la propria voce, così come può favorire l’intervento di altri attori internazionali attraverso l’apertura di nuovi spazi. Tuttavia, se si continua a parlare di violenza urbana come di una tempesta improvvisa, il loro intervento rischia di rimanere solo uno strumento mitigante che vittimizza e spoglia di agenzia politica le fasce più marginalizzate, mentre si aspetta che lo sviluppo faccia il suo dovere.
Per saperne di più:
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Reid-Henry, S. e Sending, O. J. (2014) “The ‘humanitarianization’ of urban violence”, Environment and Urbanization, 26 (2), pp. 427–442. Disponibile su: http://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/0956247814544616
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