SR: Quando e come si è manifestata la minaccia pirateria contro il naviglio mercantile italiano? E come l’armatoria italiana ha originariamente reagito per fare fronte a questa minaccia?
LS: I primi attacchi gravi risalgono al 2005, e sono avvenuti al largo delle coste somale contro una nave della compagnia d’Amico e una della compagnia Messina. Questi hanno spinto Confitarma a portare il fenomeno pirateria all’attenzione delle istituzioni. È stato rilanciato un tavolo tecnico con la Marina Militare, che in origine aveva come scopo il riavvicinamento tra le marine militare e mercantile, e che ha tratto nuovo slancio da questi incidenti.
La posizione originale di Confitarma, conformemente a quanto espresso al tempo anche dalle grandi organizzazioni marittime internazionali – come il Baltic and International Maritime Council (BIMCO), la International Maritime Organization (IMO) o la International Chamber of Shipping (ICS) – era quella di non imbarcare personale armato sui mercantili, poiché questo avrebbe reso impraticabile entrare in certe acque e raggiungere certi porti, specialmente nel Golfo Persico. Tra il 2005 e il 2010 si è dunque optato per un modello di difesa passiva, costituito da un doppio binario: tutela internazionale, tramite le missioni navali anti-pirateria, e impiego di misure di protezione passiva a bordo delle navi mercantili. Presso Confitarma è stato attivato un gruppo di lavoro dedicato, grazie in particolare allo spunto fornito da Cesare d’Amico [Amministratore Delegato della d’Amico Società di Navigazione S.p.A. e responsabile della maritime security in Confitarma] che per primo ha avuto la sensibilità di attivare una centrale di crisi in azienda, di rafforzare la sicurezza a bordo e di effettuare dei corsi di security. Sono state inoltre allungate le rotte per tenersi a distanza dalle coste pericolose.
SR: Fino a quando il modello di protezione passiva, cioè privo dell’impiego di personale armato a bordo, è durato? Quali sono le ragioni che lo hanno messo in crisi e come ha reagito l’armatoria italiana a questa sfida?
LS: Il modello cosiddetto passivo ha retto finché non sono avvenuti attacchi di pirati a grande distanza dalle coste, in mezzo all’Oceano Indiano, fino a 500 miglia dall’Oman e a 800 dalla Somalia. Fu allora chiara l’insufficienza del sistema di protezione seguito fino a quel momento, soprattutto relativamente ai tempi necessari per l’intervento delle unità militari presenti: è come se un italiano, nel trovarsi un ladro in casa, dovesse attendere la reazione della polizia da Parigi. Questo ha imposto dunque un cambio di strategia. È stato aperto un tavolo tecnico ad hoc tra lo Stato Maggiore della Marina Militare e Confitarma per immaginare una bozza legislativa sulla difesa attiva e in soli dieci mesi di lavoro, quindi in tempi molto rapidi, si è giunti all’impianto che costituisce la Legge 130/2011. Si tratta di un punto di incontro importante tra armatoria e istituzioni a cui sono seguiti accordi bilaterali con i paesi rivieraschi che affacciano sull’Oceano Indiano, per la verità nella forma “leggera” di diplomatic-clearance per consentire l’imbarco e lo sbarco di Nuclei Militari di Protezione (NMP) messi a disposizione dalla Marina Militare su richiesta volontaria dell’armatore. Confitarma ha inoltre chiesto che nella legge fosse previsto anche il possibile impiego di guardie private per la protezione, e su questo si è aperto un confronto istituzionale con il Ministero dell’Interno. Tutto ciò ha portato all’avvio del modello duale di difesa del naviglio mercantile, che ha potuto dunque avvalersi di team di protezione armata a bordo sia militari che civili (contractors).
SR: L’armatoria era in origine indifferente alla natura dei team armati da impiegare? C’era una preferenza per l’opzione militare, per i contractors, o per nessuno dei due?
LS: La nostra preferenza era per i team militari, per i rapporti in essere con la Marina, il livello di preparazione dei team e per il carattere pubblico della protezione. Il caso della Enrica Lexie è indicativo perché la nave è stata rilasciata ed è ripartita, mentre se fossero stati impiegati contractors il capitano sarebbe stato probabilmente arrestato e la nave sequestrata. Dal nostro punto di vista, la difesa pubblica è migliore, perché ci dota di maggiori tutele.
Fin dall’inizio, però, abbiamo chiesto che fosse previsto anche l’impiego dei contractors perché sapevamo che l’impiego dei NMP non sarebbe stato possibile in molti paesi dell’Oceano Indiano, che non avrebbero mai accettato personale militare armato di un paese terzo sul loro territorio, ma che invece consentivano l’imbarco e lo sbarco di civili armati, purché dotati delle opportune autorizzazioni locali. I contractors, inoltre, potevano rispondere meglio alle esigenze delle navi volandiere, ovvero a nolo, che non hanno rotte prefissate e in merito alle quali non è dunque possibile definire a priori porti di imbarco e sbarco dei team armati. Ecco dunque che è stato fondamentale il canale aperto con il Ministero dell’Interno per rimodellare il più possibile un impianto legislativo, il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), che non ha nulla a che fare con il mare. L’idea era di completare con il pilastro privato ciò che il pubblico non poteva fornire, anche se sapevamo che sarebbe stato necessario del tempo affinché questo secondo pilastro diventasse operativo.
SR: L’impianto normativo italiano che consente l’impiego di team armati ha avuto tre fasi. Una prima (2011-13), in cui il pilastro privato non era ancora di fatto attivo; una seconda (2013-15), in cui è stata caratterizzata da un regime ibrido, e infine una terza (dal 2015), nella quale il Ministero della Difesa ha sospeso la disponibilità degli NMP, lasciando agli armatori la solo opzione contractors. Dal vostro punto di vista, quale è stato il regime migliore?
LS: Certamente dal nostro punto di vista la fase ideale è stata la seconda. La prima era incompleta ed è stata dettata dalla necessità di preparare l’attivazione del pilastro privato. L’ultima ci ha un po’ spiazzati perché non è stata concertata, ma abbiamo dovuto accettare una decisione del Ministero della Difesa.
Va tenuta però anche in considerazione la prospettiva della Marina Militare, che fin da subito ha sottolineato come la loro intenzione non fosse quella di essere impiegati nella tutela del naviglio mercantile a tempo indefinito, ma semplicemente di aumentare il livello di sicurezza nell’immediato, consentire ai privati di elevare il loro livello di esperienza, e poi lasciare a questi ultimi il completamento del lavoro. In questa prospettiva hanno funzionato bene tutte e tre le fasi.
Molta attenzione è stata dedicata all’unico e sfortunato caso di Salvatore Latorre e Massimiliano Girone, ma non si può non notare come l’impianto della Legge 130 abbia in ultima istanza funzionato, poiché sono stati compiuti più di mille viaggi senza che si verificassero nuovi sequestri, e senza problemi di coesistenza tra equipaggio e team armato, fosse questo costituito da militari o contractors.
SR: Come si è svolto il dialogo con le istituzioni? C’è stata immediata attenzione alle esigenze dell’armatoria?
LS: Il dialogo è stato reso semplice dal fatto che c’è stata immediata comprensione delle nostre istanze, e di come queste fossero legate a una partita più ampia, che riguarda tutto il paese. Oltre a ringraziare la Marina Militare, la Guardia Costiera, il RINA [la società di classificazione e certificazione navale italiana] e il Viminale, vanno menzionati in particolare gli allora ministri degli Esteri e della Difesa, Franco Frattini e Ignazio La Russa, che colsero subito come l’esigenza da noi manifestata non fosse relativa solo alla protezione degli equipaggi e delle navi, ma anche dell’economia di terra. Le istituzioni colsero il problema e reagirono con rapidità straordinaria. Il fatto stesso che sia stata consentita la difesa armata del naviglio mercantile, cioè di un bene privato, rende chiaro come la nostra industria marittima sia stata finalmente compresa come un interesse nazionale strategico da tutelare. È un salto di qualità notevole, direi addirittura fondamentale.
SR: Qual è il vostro giudizio sul concerto tra missioni navali militari e impiego di team armati? Ritenete che questa sinergia vada mantenuta?
LS: La difesa attiva a bordo, quindi quella garantita da team armati, è sempre e comunque complementare alla presenza delle navi militari nelle aree a rischio pirateria. Ci siamo sempre spesi affinché la missione militare EUNAVFOR “Atalanta” fosse prorogata: per noi la presenza delle navi militari in quello spazio di mare è strategica. Non appena le missioni militari si sono ridotte [la missione NATO “Ocean Shield” è cessata nel 2016], qualche incidente in più si è verificato. La pirateria al largo delle coste somale e nell’Oceano Indiano è stata contenuta ma non debellata e se le missioni militari cessassero il fenomeno, certamente, riprenderebbe.
Peraltro, mentre la situazione si stabilizzava nell’Oceano Indiano, peggiorava quella in Africa occidentale, dove la pirateria non si manifesta prevalentemente in acque internazionali (come nell’Oceano Indiano) ma in acque territoriali. Questo crea un problema di difficile soluzione, perché se da un lato il ministro Pinotti ha riconosciuto con decreto le acque del Golfo di Guinea come rischiose, dall’altro la nostra legislazione consente l’imbarco di team solo coerentemente con l’ordinamento italiano. Purtroppo, gli stati di quella regione, Nigeria in primis, non consentono il transito nelle loro acque di navi con personale armato diverso dalle loro forze di polizia. Questo è un nodo che ancora non si è sciolto.
Ad ogni modo, le relazioni tra armatoria e Marina Militare restano strette, sia a livello nazionale, dove Confitarma dialoga con lo Stato Maggiore Marina, sia a livello sovranazionale, dove i canali con la NATO sono ormai stabili e si sono sostanziati in un protocollo per azione e formazione congiunta. La NATO stessa mantiene alta l’allerta sul fenomeno pirateria ed è pronta a reagire rapidamente in caso di nuova necessità. La pirateria è un crimine grave, da affrontare con fermezza e continuità. Ci ha fatto però un “regalo”, favorendo la costruzione di un rapporto sinergico strutturale tra marina mercantile e marina militare, sia a livello italiano che internazionale, rendendo palese alla collettività la strategica e fondamentale importanza dello shipping per l’interesse nazionale.
SR: Come è stato il vostro primo contatto con il settore della sicurezza privata?
LS: Quando ci siamo affacciati sul mercato c’erano società estere pronte ed esperte, ma le leggi italiane dovendo regolamentare attività da svolgersi su territorio italiano (le navi battenti la nostra bandiera) non hanno potuto che riguardare società di sicurezza italiane. Si è dunque dovuto trovare un modo per garantire sicurezza alle navi all’interno di un sistema abbastanza farraginoso. Mentre a Malta, tanto per restare in ambito europeo, con pochi rapidi passaggi imbarchi chi meglio credi, da noi i passaggi di autorizzazione sono molto numerosi. Questo purtroppo si riflette anche sui costi, che possono diventare anche ingenti, cambiando sostanzialmente l’economia di un viaggio. Si sta dunque lavorando con il Viminale per rivedere la regolamentazione, attraverso la rivisitazione del D.M. 266/2012 [quello che regola l’imbarco di team di protezione privata].
SR: Avete dunque dei desideri in termini di riforma normativa? Quali sono?
LS: Ci sono e sono urgenti. Come noto, la legge prevede che le guardie private in servizio armato sulle navi mercantili abbiano seguito dei corsi. Tuttavia, questi corsi non sono stati mai avviati e, fino a oggi, è stato consentito di operare in deroga avvalendosi di personale già appartenente alle Forze Armate. Rendere i corsi obbligatori ora che le guardie private operano da anni sui mercantili, vorrebbe dire aumentare i costi senza produrre alcunché di utile. Una nostra richiesta – che sappiamo essere stata valutata con la giusta attenzione – è di superare la necessità dei corsi. Per allineare i costi del mercato della sicurezza italiano a quelli internazionali, sarebbe opportuno ridurre da quattro a tre il numero minimo di guardie richiesto per costituire un team e, soprattutto, semplificare le procedure di autorizzazione. Infine, sarebbe bene mantenere un alto livello di impegno per trovare una soluzione al problema pirateria e sicurezza della navigazione in Africa occidentale.
SR: Come giudicate l’offerta di sicurezza privata disponibile in Italia?
LS: Il mercato italiano della sicurezza privata è di dimensione modesta: ci sono pochi istituti – circa cinque – con licenza che consenta loro di operare in ambiente marittimo e tra questi quelli effettivamente operativi sono all’atto pratico tre. Questo pone un problema, perché uno di questi istituti potrebbe essere non disponibile in un dato momento, uno non gradito a un certo armatore (o a un noleggiatore), oppure, visti i numeri modesti, si potrebbe facilmente creare un cartello. Di fatto, il rischio è di trovarsi in un regime di monopolio o di quasi monopolio creato dalla legge. Si tratta di un mercato strano, perché ci sono poche imprese operative, ma gli uomini formati sono al momento più che sufficienti rispetto alle nostre esigenze. Nel momento in cui ci fosse però una recrudescenza del fenomeno pirateria, probabilmente non ci sarebbe una grande scalabilità verso l’alto per rispondere a una nostra maggiore domanda.
Per saperne di più:
“The public discourse in Italy about international affairs is often hijacked by amateurs posing as geopolitical analysts. They resort to maps and other visual... Read More
Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved