La crescente proiezione internazionale di un nutrito gruppo di imprese multinazionali cinesi è tra i più interessanti risvolti del processo di globalizzazione della Rpc. Il fenomeno delle cosiddette multinazionali emergenti è oggi oggetto di un’ampia letteratura economica e soprattutto di forti attenzioni da parte di media e policymakers. Nel caso cinese, il dibattito è quanto mai di rilievo strategico, dato che una gran parte delle imprese che operano all’estero è controllata dallo Stato, una caratteristica che genera frequenti contraccolpi, come nel caso delle recenti dispute sul ruolo di investitori della Rpc in un settore chiave quale quello delle telecomunicazioni negli Stati Uniti e in Europa.
Nonostante ciò, le informazioni statistiche disponibili tendono ancora a sottostimare il fenomeno o a fornire un quadro incompleto. Ciò è dovuto al fatto che le statistiche ufficiali che misurano i flussi di Investimenti diretti esteri (Ide) dalla Rpc, basandosi sulle richieste di investimento approvate dal Ministero del Commercio, registrano solo il flusso di capitale in uscita, ma non tracciano l’investimento fino alla destinazione finale. Così, le statistiche ufficiali mostrano che la gran parte degli Ide cinesi sono diretti verso centri finanziari (più del 70% del totale va a Hong Hong) e paradisi fiscali (Isole Cayman e Isole Vergini rappresentano circa il 90% dei flussi di Ide diretti in America Latina) e sottostimano quindi i flussi verso le reali destinazioni degli investimenti, in larga parte nei paesi avanzati (che insieme parrebbero altrimenti dividersi un mero 10% del totale).
Per comprendere dunque la reale portata del fenomeno, è necessario far riferimento a dati che guardano al livello di impresa. La Heritage Foundation ha pubblicato di recente un database che mappa gli investimenti al di sopra dei 100 milioni di dollari Usa delle imprese cinesi e permette di tracciarne il percorso fino alla destinazione finale. Se a livello aggregato le cifre presentate nel database sono molto vicine a quelli ufficiali pubblicate da Pechino (Figura 1), le informazioni più interessanti riguardano proprio la distribuzione geografica degli investimenti e le caratteristiche delle imprese investitrici. A livello geografico, in particolare, il quadro si modifica in modo sostanziale. Considerando l’intero periodo disponibile (2005-2012), si osserva che alcuni tra i principali paesi sviluppati (insieme a paesi ricchi di risorse naturali) hanno ricevuto la gran parte dei capitali cinesi. L’Australia, in particolare, deve la sua leadership nel settore estrattivo a investimenti operati da imprese statali cinesi quali Chinalco, Yanzhou Coal e China International Trust and Investment Company (Citic) tra la metà e la fine della prima decade del 2000.
Oggi l’attenzione sembra essersi spostata verso i paesi del Nord America, con una distribuzione settoriale differente. Mentre il Canada registra un cospicuo investimento nel settore energetico da parte della China National Offshore Oil Corporation (Cnooc Ltd) – 15 miliardi di dollari Usa, ad oggi l’intervento più alto in assoluto operato da capitali cinesi: si veda la Tabella 2 per una lista delle operazioni più rilevanti –, gli Stati Uniti hanno attratto finora il maggior numero di investimenti (58 su un totale di 403). Gli investimenti più significativi negli Stati Uniti riguardano il settore finanziario, dove si registrano le acquisizioni operate dal fondo sovrano China Investment Corporation (Cic) in colossi del settore quali Blackstone e Morgan Stanley, ma anche nel manifatturiero con l’ormai celebre acquisizione della divisione computer dell’IBM da parte di Lenovo nel 2005 per circa 2 miliardi di dollari Usa.
Il database della fondazione Heritage fornisce inoltre nuove informazioni sui progetti di investimento che – per motivi diversi – non sono stati finalizzati. Si tratta di dati di grande rilievo nel caso cinese, considerando che in passato, così come in tempi più recenti, alcune proposte di investimento da parte di imprese statali cinesi sono state bloccate per il timore di garantire accesso a settori definiti strategici o di interesse nazionale. Tra questi spiccano i casi delle fallite acquisizioni di Chinalco e Cnooc Ltd nei settori legati allo sfruttamento delle risorse e quelli più recenti delle compagnie cinesi delle telecomunicazioni negli Stati Uniti (Tabella 3). I dati mostrano che lo stock di Ide cinesi sarebbe cresciuto di 200 miliardi di dollari Usa qualora queste operazioni si fossero realizzate.
Per quel che riguarda l’Europa, la presenza cinese è tuttora meno rilevante quanto a livello dei flussi, ma più diversificata in termini di imprese e settori. Come evidenziato da un recente rapporto, il caso europeo si distingue per la presenza di un maggior numero di imprese private responsabili di un maggior numero di investimenti (seppure su piccola scala) rispetto alle imprese statali, che dedicano invece maggiori capitali a fusioni e acquisizioni (per una sintesi delle informazioni sugli investimenti cinesi in Europa si veda la Tabella 4). Alcuni tra i principali paesi del continente, Francia, Gran Bretagna e Germania appaiono nettamente più ricettivi, mentre altri paesi hanno finora attratto un minor numero di investimenti in settori specifici. Tra questi spiccano i paesi nordici (Svezia) per le tecnologie e quelli mediterranei (Grecia) per la logistica. L’Italia, d’altra parte, non è ancora una destinazione particolarmente rilevante, se si escludono alcuni investimenti nel settore dell’auto (Anhui e JAC a Torino), dei beni per la casa (Haier nel Veneto) e nella logistica (China Ocean Shipping Company – COSCO nei porti di Napoli e Genova). Si tratta per lo più di investimenti di piccola scala e con un basso impatto sull’occupazione.
In prospettiva, l’Italia non sembra essere tra le destinazioni più appetibili per i nuovi investimenti cinesi. Un nuovo indicatore messo a punto dall’Economist Intelligence Unit (Eiu), che classifica i paesi sulla base di un insieme di caratteristiche, riporta l’Italia in trentaquattresima posizione, in una graduatoria saldamente guidata dagli Stati Uniti.
Sebbene vi siano dei rischi legati alle cattive pratiche delle imprese cinesi nell’ambito della gestione dei diritti di proprietà intellettuale, o al trasferimento di tecnologie-chiave verso la Rpc (specialmente se l’investitore è statale), in un contesto economico come quello attuale attrarre investimenti dai paesi emergenti diventa una strategia necessaria per accedere a nuovi capitali e per sostenere l’occupazione delle industrie in declino nei paesi avanzati. Promuovere politiche di attrazione degli investimenti delle nuove imprese emergenti tutelando con gli strumenti esistenti a livello internazionale gli interessi delle economie locali rappresenta, specialmente per i paesi europei, una priorità a cui far fronte senza reticenze.
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