In Cina, l’Islam si è propagato principalmente attraverso il matrimonio di donne cinesi con mercanti e soldati arabi, persiani e centroasiatici, i quali migrarono verso l’Impero di mezzo tra il tardo VII e l’VIII secolo.[1] Da allora, lentamente, ma ininterrottamente, la fede islamica è penetrata nel tessuto sociale cinese, articolandosi in una pluralità di pratiche e tradizioni locali che hanno sempre negoziato con l’autorità centrale i termini della loro autodeterminazione. Ma quali sono le sorti dei musulmani cinesi nell’era di Xi Jinping, ora che il gigante asiatico si impone al mondo come potenza “globale”? Che ruolo giocano nel mastodontico progetto economico-strutturale della nuove Vie della Seta? Con quali modalità il socialismo con caratteristiche cinesi influenza la pratica religiosa? Lungi dal dipingere l’Islam cinese come fenomeno omogeneo ed uniforme, in questo breve articolo si cercherà di proporre alcuni spunti di riflessione, nella speranza di fornire qualche strumento per poter rispondere, almeno in parte, a questi importanti interrogativi.
A differenza del Buddhismo, del Daoismo e del Cristianesimo, l’Islam nella Repubblica popolare è percepito principalmente come fenomeno etnico. Con la “classificazione etnica” (mínzú shìbié, 民族识别) messa in atto tra il 1953 ed il 1979, il Partito comunista identificò cinquantacinque minoranze nazionali (sháoshù mínzú, 少数民族), oltre al gruppo maggioritario Han, che oggi costituisce circa il 94% della popolazione cinese.[2] Dieci di queste minoranze sono di fede islamica, riconosciute tali per discendenza e/o pratica religiosa alla fine di un complesso percorso di indagine etnografica scaturito dall’esperienza della lunga marcia (1934-1935), durante la quale i comunisti entrarono in contatto con molti gruppi non-Han della Cina nord-occidentale.[3]
Ispirandosi ai principi illustrati da Stalin nell’opera Il Marxismo e la questione nazionale del 1913, il Partito considerò l’elemento religioso che queste dieci etnie hanno in comune solo come una delle componenti dell’identità etnica che le contraddistingue e non come quella preponderante. Oggi, i Tatari, i Bonan, gli Uzbeki, i Tagiki, i Salar, i Kirghizi, i Dongxiang, i Kazaki, gli Uiguri e gli Hui, abitanti soprattutto le province nordoccidentali del paese (Xinjiang, Gansu, Qinghai e Ningxia), superano i 23 milioni di individui i quali, in maggioranza Hui e Uiguri, costituiscono meno del 2% del miliardo e trecento milioni di abitanti della Repubblica popolare. Ad eccezione dei Tagiki, popolo di lingua farsi-dari che aderisce all’ismailismo sciita, i musulmani cinesi appartengono al sunnismo hanafita e solo in minima parte si rifanno alle scuole giuridiche hanbalita e shafi’ita.[4]
Il numero dei musulmani in Cina sale se si considerano coloro che hanno abbracciato l’Islam a seguito di conversioni e matrimoni misti, a prescindere dalla propria identità etnica (mínzú shēnfèn, 民族身份). Purtroppo, scoraggiando il governo ogni forma di proselitismo e disconoscendo ogni culto e setta al di fuori delle cinque “religioni di Stato” amministrate dal Partito – Buddhismo, Cattolicesimo, Protestantesimo, Buddhismo e Islam “etnico” – non è possibile stabilire l’entità numerica di questi “nuovi musulmani” (xīn mùsīlín, 新穆斯林).[5]
Benché la costituzione della Repubblica popolare cinese (Rpc) sancisca la libertà di culto e garantisca una certa autodeterminazione per le minoranze etnico-religiose, la professione di fede è di fatto scoraggiata qualora superi i confini tracciati dalla grande macchina burocratico-amministrativa degli affari religiosi che la regola in modo variabile a seconda delle realtà regionali e dei periodi storici. A un momento di relativa tolleranza religiosa coincidente con la fondazione della Rpc nel 1949 seguirono gli anni bui della Campagna anti-destra (1957-1959) e del Grande balzo in avanti (1958-1960), fino ad arrivare al decennio della Rivoluzione culturale (1966-1976), quando gli esponenti di ultra-sinistra del Partito, capeggiati da Mao Zedong, iniziarono una pesante persecuzione delle minoranze religiose. Ai musulmani fu vietato di pregare, le loro moschee furono adibite a porcili o a magazzini e molti imam furono deportati nei láogǎi, i campi di lavoro forzato e di rieducazione.[6]
Due anni dopo la morte di Mao e l’arresto della “banda dei quattro” nel 1976, in occasione della terza Sessione plenaria dell’11° Comitato centrale del Partito comunista, Deng Xiaoping lanciò la campagna di riforma ed apertura. Oltre a favorire l’ascesa dell’impresa privata e l’afflusso di capitali stranieri, la riforma attuata da Deng comportò l’adozione di politiche più liberali verso la religione, che rifiorì in tutta la Cina. Nella costituzione della Rpc del 1982, il “Punto di vista di base e la politica sulle questioni religiose durante il periodo socialista del nostro Paese”, noto come Documento 19, rimise in vigore gli organi preposti agli affari religiosi aboliti durante la Rivoluzione culturale.[7] Anche il libero esercizio del culto fu riconosciuto, purché avesse luogo nei siti registrati e autorizzati dal governo. I musulmani poterono finalmente ricostruire le loro moschee e ridare vigore al dibattito religioso interno. Le “madrase” furono riaperte, e di nuove ne furono fondate. Grazie all’aumento degli scambi con il mondo islamico internazionale ed al ripristino dello Hajj nel 1979, un numero crescente di ragazze e ragazzi musulmani cinesi si orientò verso gli studi religiosi e l’apprendimento della lingua araba nell’intento di rafforzare le proprie radici culturali e di trovare lavoro come interpreti o insegnanti.
La linea politica adotta da Deng fu ripresa dai suoi successori; tuttavia, il timore che potesse verificarsi in Cina uno scenario analogo a quello che portò alla nascita delle repubbliche centro-asiatiche post-Unione Sovietica spinse il Partito a mettere in atto un controllo più serrato dell’attività religiosa. In particolare, il separatismo etnico-religioso tibetano e quello degli Uiguri nello Xinjiang, insieme alla paura di ingerenze da parte di movimenti legati a governi stranieri, determinò un controllo capillare delle espressioni di fede, mirato a soffocare il fervore religioso ed i suoi potenziali impeti sovversivi.
In occasione dalla Conferenza nazionale sulle politiche religiose (zóngjiào gōngzuò, 宗教工作) del dicembre 1990, il presidente Jiang Zemin sottolineò che la religione non deve sovrapporsi all’autorità del Partito, né minacciare l’unità nazionale e il socialismo assoggettandosi all’influenza di forze straniere. La necessità dell’adattamento della fede al socialismo fu ribadita in un discorso ai quadri apicali del Partito tenuto il 18 dicembre 2007 dal suo successore, Hu Jintao, il quale sottolineò come i credenti dovessero partecipare alla crescita economica e morale della “società moderatamente prospera” (xiǎokāng shèhuì, 小康社会).
Nella nuova retorica del Partito, la “moderata prosperità” (xiǎokāng, 小康) – menzionata nell’ode Minlao del Libro delle Odi e nel settimo capitolo del Libro dei Riti – si riferisce all’obbiettivo di allargare il bacino della classe media secondo un nuovo linguaggio propagandistico che sostituisce al gergo marxista della lotta di classe le massime dei Classici confuciani.[8]
Dopo la caduta dell’Unione sovietica, molte espressioni derivate dal pensiero classico cinese riprese dal grande antropologo Fei Xiaotong sono divenute la base della nuova narrazione del Partito per rinforzare l’unità nazionale. Il concetto di nazione cinese come “entità multietnica unitaria” (Zhōnghuá mínzú duōyuán yītǐ, 中华民族多元一体), nata da un medesimo sostrato morale ed emozionale ripreso da Fei nel 1988 in un intervento all’Università di Hong Kong è stato citato dalla Commissione per gli affari etnici nel 1990 e poi ufficialmente adottato da Hu Jintao nel 2005.[9] Xi Jinping ha ripreso l’idea dell’inclusione e del legame morale/spirituale (“cuore a cuore”, jiāngxīn bǐxīn, 将心比心) tra le nazioni cinesi, indicata da Fei, come conditio sine qua non per la realizzazione del sogno cinese.[10]
Tuttavia, nelle province nord-occidentali largamente popolate da minoranze islamiche, la retorica “neoconfuciana” di Stato non è completamente efficace, poiché qui l’universo morale della nascente classe media la porta a “consumare” e a fare impresa nell’ambito di un’etica religiosa condivisa con la ummah “globale” (pensiamo al commercio e al consumo di carni halal, ad esempio).[11] Per rendere il suo messaggio più incisivo, dunque, il Partito applica lo stesso criterio di selezione dei Classici confuciani alla tradizione islamica, appropriandosi dei passi coranici che meglio servono ad indirizzare le comunità islamiche cinesi verso il suo disegno politico-economico: la realizzazione di un Islam con caratteristiche cinesi.[12] I passi delle Scritture sono usati cioè come slogan attraverso una propaganda visuale che mira a promuovere la “società armoniosa” (héxié shèhuì, 和谐社会) e la “solidarietà etnica” (mínzú tuánjié, 民族团结) tra le minoranze della Cina e la maggioranza Han in termini “islamici”. L’esempio più comune è la riproduzione su manifesti e targhe affissi in ogni moschea, mausoleo o associazione islamica dell’incipit del versetto 103 della Sura della famiglia di ‘Imrân: “Aggrappatevi insieme al canapo di Dio, e non siate divisi” (enfasi dell’autrice): un chiaro per quanto indiretto ammonimento contro il separatismo etnico. [13]
Riprendendo in parte le fila del dibattito degli intellettuali nazionalisti musulmani del primo periodo repubblicano (1911-1949), i quali consideravano ”l’amore per la patria parte della fede”, il Partito esalta il profondo processo di acculturazione dell’Islam alla tradizione cinese.[14] Combattere il separatismo diviene dunque un fattore fondamentale della strategia di rafforzamento del ruolo-guida del Partito nel processo di modernizzazione delle più arretrate province nord-occidentali. Per raggiungere questo scopo, nel 1999 il presidente Jiang Zemin lanciò il piano del “Grande sviluppo delle regioni occidentali” (Xībù dàkāifā, 西部大开发) per la messa a punto di opere infrastrutturali su larga scala, come aeroporti, ferrovie, strade, viadotti, e impianti a gas per ridurre il divario tra l’arretrato Nord-ovest e la Cina interna. Oggi, il piano di rinascita auspicato dal presidente Xi Jinping riassunto nel concetto di “sogno cinese”, al centro del quale si trova l’implementazione del progetto della nuove Vie della Seta prosegue il lavoro iniziato da Jiang Zemin con il Xībù dàkāifā.[15] Tuttavia, a differenza di Jiang, Xi non crede che l’avanzamento economico delle province occidentali basti a mitigare le tensioni etniche locali: accanto alla crescita della classe media ed alla messa a punto di piani infrastrutturali, occorre educare il Nord-ovest cinese ai valori spirituali dell’amor patrio.[16] Durante il 1° Congresso del principale organo di attuazione delle politiche etniche e religiose, il Fronte Unito del Lavoro Centrale, tenutosi nell’anno 2015, Xi ha sottolineato che il “reciproco adattamento tra socialismo e religione”, deve: “perseverare in direzione della sinifcazione” (jiānchí Zhōngguóhuà fāngxiàng, 坚持中国话方向). Per ciò che riguarda l’Islam, la sinificazione si traduce in una serie di misure: l’indottrinamento degli imam attraverso corsi di formazione svolti presso la Società Islamica di Pechino; l’incoraggiamento all’uso del cinese a scapito delle lingue locali e dell’arabo; la severa censura dei movimenti missionari musulmani attraverso l’innalzamento a 35 anni dell’età ritenuta idonea al pellegrinaggio con liste d’attesa di oltre vent’anni; l’obbligo di restaurare e costruire moschee secondo i dettami stilistici dell’architettura tradizionale cinese.
Queste politiche si sono fatte più esplicite dopo il 19° Congresso nazionale del Partito comunista cinese dell’ottobre 2017, durante il quale Xi ha definitivamente sancito il suo ruolo di capo indiscusso dei principali organi politici del governo. Durante il suo discorso, Xi ha sottolineato che il Partito si impegnerà a guidare la religione verso il socialismo, rinforzando lo “stato di diritto” (fǎzhì, 法治),[17] ovvero l’applicazione della legge da parte del Partito comunista in quanto assoluta ed indiscutibile coscienza politica del popolo cinese.[18] Più recentemente, il 5 gennaio 2019 a Pechino si è tenuto un convegno con le maggiori associazioni islamiche governative del paese dal tema “perseguire il lavoro quinquennale per la sinificazione dell’Islam nel nostro paese” (jiānchí wǒguǒ Yīsīlánjiào Zhōngguóhuà fāngxiàng wǔnián gōngzuò, 坚持我国伊斯兰教中国化方向五年工作), con il quale il Partito ha promosso una serie di misure da attuare entro l’anno 2022. Tali misure mirano ad inculcare tra i credenti il rispetto dei “4 discorsi” (sì jiǎng, 四讲), ossia delle leggi e degli statuti sulla pratica religiosa, sul socialismo, e sulla cultura tradizionale cinese mediante l’organizzazione di incontri e corsi di formazione nelle moschee sparse per il paese.[19] Questo programma, incentrato allo sviluppo di un legame “emotivo” tra i cittadini e lo Stato-Partito, “centro” ed arbitro di civiltà, ha determinato un inasprimento del trattamento di quelle minoranze etnico-religiose storicamente collocate “alla frontiera” della Cina, in primis gli Uiguri che abitano la Regione Autonoma dello Xinjiang.
Lo Xinjiang (letteralmente “la Nuova Frontiera”), annesso alla Cina solo nel 1884 sotto dominazione mancese (1644-1912), si estende su una superficie di 1,664,900 chilometri quadrati e costituisce un sesto del territorio della Repubblica popolare, ospitando 55 dei suoi 56 gruppi etnici.[20] Negli anni Ottanta, gli Uiguri – turcofoni di religione musulmana – costituivano l’80% della popolazione locale. Da allora, lo Stato centrale ha ripreso il “colonialismo interno” fondato sullo ethnic drowning già caro ai Mancesi, ovvero la massiccia migrazione degli Han, che oggi superano il 41%, contro il 43% di Uiguri.[21] Ricco di idrocarburi e “porta” per l’Eurasia, lo Xinjiang ha un’importanza strategica fondamentale nei legami di Pechino con l’Occidente lungo le nuove Vie della Seta. A partire dagli anni Novanta, i crescenti attacchi terroristici attribuiti al Movimento Islamico del Turkestan Orientale accusato di avere legami con al-Qaeda e ISIS, hanno inasprito le politiche repressive del Partito il quale, per contrastare legittimamente la violenza terroristica entro i suoi confini, sta tuttavia perpetrando un attacco indiscriminato verso le espressioni della cultura uigura.[22] La pressione sul controllo dello Xinjiang si è acuita dopo la rivolta di Urumqi del 2009, scatenatasi a seguito del pestaggio di due operai uiguri in una fabbrica dello Guangdong da parte di alcuni Han, e dopo l’inserimento del terrorismo uiguro nella lista nera della guerra al globale terrorismo, post-11 settembre.
La proclamazione di Xi a “padre” della nazione cinese[23] e a presidente ad perpetuum sancita nel corso del 19° Congresso nazionale ha inasprito le tensioni etniche tra Han ed Uiguri che già furono all’origine di pesanti attacchi terroristici, come quello di Piazza Tian’anmen del 2013. In questo stesso anno, Xi si è messo a capo della Commissione della sicurezza nazionale e ha posto la Commissione degli affari etnici e l’Amministrazione degli affari religiosi sotto il Dipartimento del lavoro del Fronte Unito, accentrando così sotto il suo diretto controllo tutte gli organi preposti alle politiche etnico-religiose. Nonostante queste misure, il perpetuarsi degli attacchi terroristici lo ha spinto ad attuare su larga scala un piano per la “trasformazione educativa” (jiàoyù zhuǎnhuà, 教育转化) della masse.[24]
Nello Xinjiang, eccezion fatta per le danze tradizionali che rispondono ad un progressiva folklorizzazione delle culture nazionali, il Partito vieta l’utilizzo della lingua uigura nelle scuole e negli uffici governativi e proibisce le pratiche religiose e l’uso del velo. Negli ultimi anni, la provincia è stata progressivamente militarizzata, istituendo “campi di rieducazione professionale” (zài jiàoyù zhōngxīn, 再教育中心), i cui “ospiti” – il cui numero sembra abbia raggiunto quasi il milione nel 2018 – perdono qualsiasi contatto con il mondo esterno e con i propri familiari, e apprendono un lavoro manuale sottopagato che, una volta usciti, forse ne aumenterà il già esistente divario professionale con gli Han.[25] Oltre alla prigionia nei campi, il Partito invia presso gli Uiguri i “parenti” Han: civili addestrati alla propaganda “civilizzatrice” di Stato secondo un disegno politico che l’antropologo Darrel Bayler ha definito “paternalismo violento”. Questi “parenti” s’intrattengono per giorni nelle case dei loro “fratelli minori” per educarli alla cultura cinese, assicurandosi che non usino parole uigure o arabe, che non preghino… Insomma, che siano “sinceramente” secolarizzati.[26]
L’irrigidimento del controllo sulla pratica religiosa, a cui è seguito un aumento importante dei blog “anti-Islam” tra gli internauti Han, sta colpendo, seppur in modo più lieve, anche gli Hui, la minoranza etnica musulmana più numerosa e storicamente più acculturata alla società cinese che abita maggiormente il Gansu, il Qinghai ed il Ningxia. Questi stanno avendo maggiore difficoltà nell’accesso alle scuole coraniche ed ai loro forum di discussione in rete.[27]
Alla politica invasiva perseguita all’interno dei propri confini, corrisponde una “non ingerenza” della Cina nelle affari domestici dei paesi musulmani con i quali fa affari.[28] Le nuove Vie della Seta investono nella costruzione di infrastrutture nei paesi in via di sviluppo, come il Pakistan, che è uno dei partner economici chiave della Cina in Asia centrale, o il Kazakistan, ma si basa anche su accordi bilaterali per furniture di petrolio, di energia rinnovabile e nucleare, e sulle telecomunicazioni di ultima generazione per un giro d’affari di miliardi di dollari. Nel febbraio 2019, Xi Jinping e il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman hanno firmato 35 accordi economici per un valore complessivo di 28 miliardi di dollari.[29] Il volume di affari cresce anche con gli altri paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e con l’Iran, percepito come un paese meno colpito dal terrorismo: fattore determinante per Pechino, che trasferisce molti dei suoi cittadini in Medio Oriente per la realizzazione di progetti infrastrutturali. Anche in Africa, gli accordi con i paesi a maggioranza musulmana aumentano di anno in anno. [30] Proprio in virtù della presenza di minoranze di fede islamica entro i suoi confini, la Cina può giocare la carta religiosa e creare un legame emotivo con i paesi musulmani che l’Europa fatica ad instaurare. [31] Tuttavia, considerando che la maggior parte dei musulmani “etnici” vive nelle province meno sviluppate del Nord-ovest e rappresenta la parte meno educata del paese, sorge spontaneo chiedersi quanti di loro abbiano accesso alle imprese cinesi sorte lungo le nuove Vie della Seta gestite direttamente dallo Stato-Partito, dominato dalla maggioranza Han.
L’espressione “Islam with Chinese characteristics”, da cui è tratto il titolo di questo articolo, deriva dall’espressione “socialismo con caratteristiche cinesi” (yǒu Zhōngguó tèsè de shèhuì zhǔyì, 有中国特色的社会主义), formulata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta e ufficializzata dal Partito nel 1992. Essa ricorre ormai in diverse pubblicazioni redatte in lingua inglese di carattere politico e giornalistico. Nel mondo accademico, Kristian Petersen la usa nel suo libro Interpreting Islam in China: pilgrimage, scripture, and language in the Han Kitab (Oxford: Oxford University Press, 2017), in riferimento all’adozione da parte dei letterati islamo-confuciani della fine del XVII secolo della tradizione classica cinese nell’elaborazione dei loro scritti religiosi.
[1] Francesca Rosati, L’Islam in Cina. Dalle origini alla Repubblica popolare (Roma: L’Asino d’Oro, 2017), 11-23.
[2] Ivi, 189-197.
[3] Gruppo di studi sulle questioni etniche, Huíhui mínzú wèntí [La questione dell’etnia Hui] (Pechino: The Ethnic Publishing House, 1982).
[4] Francesca Rosati, L’Islam in Cina. Dalle origini alla Repubblica popolare (Roma: L’Asino d’Oro, 2017), 194-196; Francesca Rosati, ”Islam e identità etnica in Cina. Dalla fine della dinastia Qing alla Repubblica popolare”, Sulla Via del Catai, anno X (2017) 16: 83-92.
[5] Rosati, L’Islam in Cina, 5.
[6] Rosati, L’Islam in Cina, 212-218.
[7] Michael Dillon, “Religious minorities in China”, Minority Rights Group International (2001), disponibile all’Url https://www.refworld.org/pdfid/469cbf8e0.pdf.
[8] Questa parte è ripresa dal libro dell’autrice, L’Islam in Cina, 219-226.
[9] Zhou Minglang, ”Nation-state Building and Multitculturalism in China”, in Handbook on Ethnic Minorities in China, a cura di Xiaowei Zang (Cheltenham, UK and Northampton, MA: Edward Elgar, 2016),111-138.
[10] Ivi, 130.
[11] Yukari Sai e Johan Fischer, ”Muslim Food Consumption in China: Between Qingzhen and Halal”, in Halal matters. Islam, Politics and Markets in Global Perspective, a cura di Florence Bergeaud-Blackler, Johan Fischer and John Lever (Londra: Routledge, 2015), 160-174.
[12] Qualcosa di simile avviene anche con la selezione di passi dai Canoni buddhisti e dalla Bibbia cristiana.
[13] Si vedano: Matthew S. Erie, ”Defining Shariʿa in China: state, ahong, and the post-secular Turn”, special issue of Cross-Currents: East Asian History and Culture Review, (2014) 12: 88-117, disponibile all’Url http://cross-currents.berkeley.edu/e-journal/issue-12; Rosati, L’Islam in Cina, 223.
[14] Rosati, L’Islam in Cina, 174-175.
[15] Rosati, L’Islam in Cina, 236-237.
[16] James Leibold, ”The Spectre of insecurity: the CCP’s mass internment strategy in Xinjiang”, China Leadership Monitor, 2019, disponibile all’Url https://www.prcleader.org/leibold?fbclid=IwAR1_2iOWeAvcyV5n5N8j7ajffJMpigCRX6BXDEqS7iO3QjvRIy2dl0bPKxg.
[17]Li Yuan, “At the Congress Xi reaffirms: sinicization of religions under the Communist party”, Asia News, 19 ottobre 2017, disponibile all’Url http://www.asianews.it/news-en/At-the-Congress-Xi-reaffirms:-Sinicization-of-religions-under-the-Communist-Party-42096.html.
[18] Ignazio Castellucci, “Rule of law with Chinese characteristics”, Annual Survey of International & Comparative Law 13 (2007) 1: Article 4, disponibile all’Url http://digitalcommons.law.ggu.edu/annlsurvey/vol13/iss1/4.
[19] Min Junqing, Ma Dan e Dong Saimo, “Zhōngguó Yīsīlánjiào Xiéhuì zài Běijīng zhàokāi «jiānchí wǒguǒ Yīsīlánjiào Zhōngguóhuà fāngxiàng wǔnián gōngzuò guīhuà gāngyào» yántǎohuì” [L’Associazione Islam Cina apre a Pechino un seminario dedicato al «perseguimento del lavoro quinquennale per la sinificazione dell’Islam nel nostro Paese»] disponibile all’Url http://www.chinaislam.net.cn/cms/news/xhxw/201901/05-12941.html (link in cinese).
[20] Svetlana Kozhirova, Aigul Khazhmuratova e Taissya Marmontova, ”Ethnic composition of Xinjiang population: past and present”, Anthropologist 26 (2016) 1, 2: 72-80, disponibile all’Url http://krepublishers.com/02-Journals/T-Anth/Anth-26-0-000-16-Web/Anth-26-1,2-000-16-Abst-PDF/T-ANTH-SV-26-1,2-072-16-1873-Kozhirova-S/T-ANTH-SV-26-1,2-072-16-1873-Kozhirova-S-Tx[12].pdf.
[21] Timothy Cheek, Living with reform: China since 1989 (Londra: Zed Books, 2006), 134; Gisela Grieger, “China: assimilating or radicalising Uighurs?”, European Parliamentary Research Service EPRS, novembre 2014, disponibile all’Url http://www.europarl.europa.eu/EPRS/EPRS-AaG-538966-China-Assimilating-or-radicalising-Uighurs-FINAL.pdf.
[22] Rosati, L’Islam in Cina, 230-236; Andrea Pira, ”Cina vs Turkestan/Xinjiang. Tra Indipendentismo, Terrorismo e Propaganda’’, in A Oriente del Califfo: a est di Raqqa. Il progetto del gruppo Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi, a cura di Emanuele Giordana con la collaborazione di Lettera22 (Torino: Rosenberg & Sellier, 2017), 112-123.
[23] Xi Jinping è noto alla stampa locale come “Xi Dada”, papà Xi.
[24] James Leibold, ”The spectre of insecurity: the CCP’s mass internment strategy in Xinjiang”, China Leadership Monitor, 2019, disponibile all’Url https://www.prcleader.org/leibold?fbclid=IwAR1_2iOWeAvcyV5n5N8j7ajffJMpigCRX6BXDEqS7iO3QjvRIy2dl0bPKxg.
[25] Gabriele Battaglia, “Le radici della crisi nello Xinjiang”, Internazionale, 26 gennaio 2019, disponibile all’Url https://www.internazionale.it/notizie/gabriele-battaglia/2019/01/26/radici-crisi-xinjiang; UHRP, “The mass internment of Uyghurs: «We want to be respected as humans. Is it too much to ask?»”, disponibile all’Url https://docs.uhrp.org/pdf/MassDetention_of_Uyghurs.pdf.
[26] Darren Byler, ”Violent paternalism: on the banality of Uyghur unfreedom”, The Asia-Pacific Journal, 24 (2018) 4:
[27] James Leibold, ”Creeping Islamophobia: China’s Hui muslims in the firing line”, China Brief 16 (2016) 10 disponibile all’Url https://jamestown.org/program/creeping-islamophobia-chinas-hui-muslims-in-the-firing-line/.
[28] Rosati, L’Islam in Cina, 234-238.
[29] Charlotte Gao, ”Chinese President and Saudi Crown Prince hold a «win-win» meeting”, The Diplomat, 23 febbraio 2019, disponibile all’Url https://thediplomat.com/2019/02/chinese-president-and-saudi-crown-prince-hold-a-win-win-meeting/.
[30] Stasa Salacanin, ”The Middle East and the new Silk Road”, The Middle East Monitor, 22 settembre 2016, disponibile all’Url https://www.middleeastmonitor.com/20160922-the-middle-east-and-the-new-silk-road/; Julia Breuer, “Two Belts, one Road? The role of Africa in China’s Belt & Road initiative”, Blickwechsel, luglio 2017, disponibile all’Url http://crossasia-repository.ub.uni-heidelberg.de/4092/1/Breuer-2017.pdf.
[31] Rosati, L’Islam in Cina, 239. Ad eccezione della Turchia, i paesi musulmani in affari con la Cina sulle nuove Vie della Seta tendono a non prendere posizione sulla questione del trattamento subìto dagli Uiguri. L’Arabia Saudita, ad esempio, ha recentemente espresso una generica solidarietà verso le azioni di anti-terrorismo del governo di Xi.
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