L’economia è il versante dove i rapporti tra Italia e Indonesia si esprimono al meglio. Gli altri terreni non sono meno importanti, ma presentano aspetti non conflittuali sui quali è difficile immaginare tensioni. I due Paesi non hanno infatti animosità politiche, problemi legati alla sicurezza, rancori post-coloniali o contenziosi aperti. Condividono inoltre i principi ispiratori della società e della politica: il valore della democrazia, l’incoraggiamento al libero mercato, l’alternanza al governo, il rispetto dei diritti umani. Su tutti questi fronti i recenti progressi dell’Indonesia sono stati indiscutibili. Il Paese è proiettato verso una puntuale sconfitta del sottosviluppo e della povertà, mentre si affermano i valori fondamentali del rispetto della legge e dei diritti umani. In questa cornice, il quadro dei rapporti economici è quello più denso. Esso tuttavia risente di ostacoli e ritardi. Nella loro prosaica evidenza, i numeri rivelano in generale un’insufficienza dei flussi, pur se mitigata da alcuni riscontri positivi e promettenti. L’analisi che segue riguarda le due componenti degli scambi economici: il commercio e gli investimenti.
L’Italia nel 2016 – secondo le proiezioni più aggiornate – ha esportato in Indonesia un valore di merci pari a circa 1,1 miliardi di euro. Si tratta di una cifra molto simile a quella del 2015 e che conferma il trend leggermente in discesa dal picco del 2012 (1,2 miliardi). Negli anni precedenti le esportazioni si erano assestate su cifre ancora più ridotte. Al di là degli andamenti, emerge il valore modesto delle esportazioni italiane. Soltanto lo 0,27% dell’export nazionale si dirige infatti verso il Paese asiatico. Si tratta di un’altra conferma del disequilibrio del flusso direzionale italiano che privilegia i mercati maturi e vicini. Soltanto da pochissimi anni la Cina, tra le destinazioni estremo-orientali, è entrata tra i primi mercati di sbocco delle merci italiane. I mercati europei e quello statunitense ne assorbono, come noto, la grande maggioranza.
L’Indonesia e l’Asia in generale si sono rivelate finora mercati lontani e difficili per le aziende italiane. La struttura societaria più diffusa nel nostro Paese – rappresentata dalle piccole e medie aziende – non è uno strumento di penetrazione efficace in questi contesti. Al contrario ha accentuato le difficoltà a operare in arene commerciali più difficili ed esposte alla concorrenza internazionale. Inoltre, la composizione merceologica non agevola l’incremento delle esportazioni. La forte presenza dei beni di consumo nella struttura produttiva italiana rende difficoltose le vendite verso i Paesi (tra cui l’Indonesia) che proprio a questi hanno affidato le prime fasi dell’industrializzazione, con costi contenuti e vaste capacità manifatturiere.
A parziale integrazione della ridotta percentuale dello 0,27% va aggiunto che una parte consistente dell’export italiano verso Singapore (0,47% del valore nazionale) è in realtà indirizzata verso l’Indonesia. Il ruolo di ridistributore della città- stato non è cambiato negli anni. Le merci straniere traggono vantaggio dalla sua eccellente dotazione: porti, aeroporti, flotta marittima e aerea. Al contrario, l’Indonesia registra un forte ritardo nella rete infrastrutturale. Di conseguenza, il passaggio a Singapore è pressoché obbligatorio e rimarrà tale fino a quando la distanza della dotazione tecnologica tra i due vicini rimarrà così ampia.
Le importazioni dall’Indonesia sono per contro più massicce e nel 2016 hanno confermato – con un valore di circa 1,7 miliardi di euro – il tradizionale deficit della bilancia commerciale per l’Italia. La loro composizione è molto eterogenea. La voce principale riguarda gli oli vegetali, seguiti dai prodotti alimentari, quelli chimici, il carbone, il tessile, le calzature e i componenti elettronici. Si tratta della tipica articolazione di un Paese emergente, imperniata sulle materie prime e sui beni finali ad alta intensità di manodopera.
Al contrario, le esportazioni verso l’Indonesia sono appannaggio quasi esclusivo della meccanica strumentale, declinata in varie forme. Solo il cuoio e la pelletteria (usati nella produzione di articoli e calzature di qualità) mostrano valori consistenti. Sono pressoché assenti i settori più affermati dell’export italiano, quelli che afferiscono al Sistema Persona, al Sistema Casa e ai prodotti alimentari. Viene dunque confermata la diffusa – e paradossale – situazione del Made in Italy: conosciuto per i beni di consumo, ma senza ripercussioni sui flussi commerciali; presente nei beni capitali, senza riceverne la coerente percezione di qualità e di affidabilità.
Gli investimenti italiani in Indonesia presentano valutazioni moderatamente più incoraggianti, in linea con quanto espresso nell’intera area ASEAN. Secondo una ricerca condotta da Osservatorio Asia nel 2015 nei 10 Paesi del Sud-est asiatico si rilevano 421 presenze italiane. Essa tiene conto esclusivamente degli effettivi trasferimenti di risorse e non include le aziende sorte localmente con proprietà italiane o impegnate nella distribuzione di prodotti italiani importati. Le 421 aziende sono attive nella produzione (120) e nei servizi (301). Singapore guida la classifica delle presenze (118), seguita da Vietnam (76) e Indonesia (73). Quest’ultima detiene comunque la prima posizione per gli investimenti produttivi, che hanno raggiunto le 39 unità. È un risultato non trascurabile che ricolloca il Paese più importante del Sud-est asiatico nella sua giusta dimensione. Dopo la caduta di Suharto nel 1998 e le conseguenze sulla stabilità, molte aziende italiane avevano lasciato il Paese. La loro presenza oggi rappresenta un segnale forte di fiducia e di lungimiranza. I settori prevalenti sono la meccanica, la chimica-petrolchimica-farmaceutica, il tessile-abbigliamento. Non esistono consistenti investimenti indonesiani in Italia, dopo il passaggio di proprietà della società di calcio Internazionale dall’indonesiano Erick Thohir a una nuova proprietà cinese.
Esistono due argomenti a favore di un probabile – non velleitario – rafforzamento delle relazioni economiche tra i Paesi, soprattutto nell’origine del commercio e dei movimenti di capitale dall’Italia. Il primo è rappresentato dalla costante emersione di aziende di medie dimensioni in Indonesia (così come in tutto il blocco dell’Asia Sud-orientale). Un numero impressionante di iniziative private costella ormai l’intero spettro economico regionale. Si tratta di aziende giovani, internazionalizzate, esposte alla globalizzazione, non più espressione del potere degli esecutivi. Esse rappresentano la controparte migliore per le imprese italiane in cerca di destinazioni nuove per esportazioni o accordi. Va considerato in secondo luogo l’incrocio tra la necessità indonesiana di migliorare il tessuto produttivo e sociale del Paese e l’offerta italiana. Essa può concentrarsi su tre versanti: la trasformazione delle materie prime (per la storica necessità di non doverle più esportare grezze, senza valore aggiunto), la costruzione di infrastrutture (strategica per un Paese di oltre 17.000 isole, con una cronica insufficienza nei trasporti) e la volontà di una crescente classe media di uscire dall’omologazione e di certificare la propria ascesa mediante i prodotti più prestigiosi del Made in Italy.
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