Laos e Cambogia condividono una medesima, cruciale aspirazione: mantenere la propria indipendenza. Se quella formale non sembra minacciata, i timori di perdere la capacità decisionale aumentano, sia per le ridotte dimensioni dei due Paesi, sia per i recenti cambiamenti che stanno avendo luogo nel teatro asiatico. In effetti, entrambi i Paesi non appaiono minuscoli all’interno dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN). La loro popolazione supera quelle di Singapore e Brunei, che tuttavia non registrano preoccupazioni analoghe. La città-stato è uno degli Stati più ricchi della terra, centro distributivo, perno della finanza internazionale, crocevia della globalizzazione, dotato dei più moderni apparati di sicurezza militare. Brunei, pur con una popolazione molto ridotta, galleggia sul petrolio e la sua prosperità è salvaguardata da un sistema sociale chiuso e imperniato su rigorosi valori religiosi.
Invece, le nazioni laotiane e cambogiane risentono ancora della loro nascita, spesso decisa da potenze più grandi, dalle spartizioni coloniali e da eventi bellici per loro incontrollabili. Situati tra due potenze regionali come il Viet Nam e la Thailandia, hanno conosciuto destini decisi a Parigi, nella sua competizione coloniale con Londra. Insieme al Viet Nam hanno fatto parte fino alla metà del secolo scorso dell’Indocina francese. I retaggi si vedono ancora nel paesaggio agricolo, nell’elegante architettura urbana, in alcune abitudini alimentari, fino a pochi anni fa anche nei canoni culturali. La lotta per l’indipendenza ha lasciato cicatrici profonde perché si è inserita nella temperie della Guerra fredda e ha inflitto ai due Paesi ferite lunghe e dolorose. Con il ritiro delle truppe statunitensi, nel 1975, sembrava possibile un avvenire pacificato e di sviluppo per l’intera Indocina. La vittoria del Viet Nam del Nord e la riunificazione del Paese lasciavano presagire la fine delle ostilità, che invece sono proseguite in una spirale bellica apparsa poi inarrestabile. In realtà, ancora una volta, Laos e Cambogia erano in balia di dispute più grandi di loro. Il primo non poteva sfuggire alla tutela vietnamita e dunque alle direttive dell’Unione Sovietica (URSS). Cercava di mantenere una difficile neutralità, ma le condizioni esterne imponevano scelte drastiche, come la fine della monarchia, la collettivizzazione delle terre, la nazionalizzazione dell’economia, la limitazione del millenario potere del clero buddhista. La Cambogia ha conosciuto un destino ancora più cruento, con il tragico esperimento sociale dei Khmer Rossi. Armati di fanatismo ideologico, intrisi di radicalismo politico, sentinelle contro ogni deviazione, gli ex guerriglieri non hanno esitato a intraprendere un tragitto drammatico e violento, consegnato alla storia soltanto dall’intervento militare vietnamita alla fine del 1978. Questa violenza non sarebbe stata possibile se il regime di Pol Pot non fosse stato appoggiato – anche dopo la sua caduta, quando era ritornato alla pratica guerrigliera – dalla Cina in primis e poi paradossalmente dagli Stati Uniti e dall’Europa Occidentale. Per molti anni, nonostante le condanne e le scoperte delle violenze perpetrate, il governo dei Khmer Rossi ha detenuto il seggio alle Nazioni Unite come legittimo rappresentante della Cambogia. Appare chiara la sottomissione dei valori democratici e dei diritti umani alla logica dell’appartenenza. Una Cambogia non pacificata era utile a Pechino e a Washington in funzione antisovietica. Il nuovo governo a Phnom Penh era espressione degli interessi vietnamiti, dunque fedele a Mosca, certamente ostile a Stati Uniti e Cina che tuttavia gli impedivano un’azione di governo finanziando i suoi nemici
Il tentativo di formare un intero avamposto sovietico nell’Asia sud-orientale è caduto insieme all’URSS. Dal 1991 si sono messi in moto meccanismi che hanno ridisegnato gli assetti e impresso l’affermazione dell’economia come sfera di interesse intorno a quella più prettamente politica. La lotta al sottosviluppo, ormai essenziale in Paesi sostanzialmente in pace, ha conosciuto successi chiaroscurali ma costanti. Per Laos e Cambogia l’adesione all’ASEAN (rispettivamente nel 1997 e nel 1999) ha posto una pietra miliare in questo percorso. L’ingresso del Vietnam (1995) aveva indicato che l’Associazione era pronta a sostituire l’appartenenza politica con l’ambizione economica. Nata per contrastare l’espansione dell’URSS e della Cina popolare – che sostenevano le guerriglie in tutto il Sud-Est asiatico – l’ASEAN doveva mutare i suoi scopi, quando il nemico non esisteva più, soprattutto dopo che Pechino aveva adottato logiche capitaliste e smentito l’impostazione terzomondista. Quando i tre Paesi indocinesi aderiscono all’ASEAN una precisa divisione del mondo viene consegnata alla storia.
Oggi si affacciano altre tensioni e ancora una volta Laos e Cambogia rischiano di essere pedine di un gioco più grande di loro. La nuova politica estera cinese mostra un’assertività inedita, frutto certamente degli spettacolari risultati economici conseguiti negli ultimi 40 anni. Marcia su due linee non parallele: il traino economico e la presenza strategica, in una direttrice spesso contorta e intersecantesi. A tutti i Paesi del Sud-Est asiatico Pechino offre sostegno economico, offerta di capitali, disponibilità di manodopera, iniezioni di tecnologia. È difficile per piccole nazioni rifiutare la costruzione di ferrovie, porti, reti elettriche, quando il sottosviluppo sembra eterno o comunque difficile da sconfiggere. L’aiuto non è certamente gratuito. La Cina chiede in cambio attracco ai porti che costruisce, percorribilità della ferrovia ad alta velocità, riutilizzo dell’energia elettrica che contribuisce a produrre. Il timore diffuso nel resto dell’Asia e nelle cancellerie occidentali è la cessione di sovranità nazionale e dunque che in situazioni di crisi le infrastrutture servano a scopi militari e non civili.
La preoccupazione conduce ai più generali assetti che la Cina rivendica nel Mar Cinese Meridionale. Se prevalesse la sua impostazione (la “nine-dash line”) i suoi confini sarebbero spostati di alcune miglia di chilometri dalle sue coste meridionali. Le ripercussioni sulla libertà di navigazione, i movimenti della Settima Flotta della Marina statunitense, i traffici delle petroliere e gli scambi di merci ne sarebbero completamente cambiati. Paesi importanti come l’Indonesia, la Malaysia, il Viet Nam e Singapore avvertono la necessità di non restare compressi tra la necessità di sicurezza garantita dagli Stati Uniti e l’indispensabile traino economico fornito dalla Cina. La loro impostazione mira a una soluzione negoziata, pacifica e rispettosa dei loro interessi in una zona avulsa da tensioni e tesa alla produzione di ricchezza sociale. Il Laos e la Cambogia sono ovviamente più deboli e forse manipolabili. Le loro posizioni non sono comunque omogenee e risentono di fenomeni storici e culturali.
Il Laos ricerca una posizione equilibrata. È il risultato della tradizionale vicinanza al Viet Nam, del confine con la Cina, della mancanza di sbocchi al mare (unico tra i Paesi ASEAN). Ha il compito di impiantare un’industria nazionale, di trasformare le materie prime che la fertilità del suolo gli ha concesso, di generare una ricchezza sufficiente che affianchi la generosità degli aiuti internazionali. Probabilmente non gli sarà sufficiente mantenere l’identità socio-religiosa, coltivare la diversità, attrarre visitatori per il suo carattere esotico. La Cambogia ha invece assunto posizioni sempre più inclini a Pechino. Il porto di Sihanoukville è ormai un terminale importante di merci cinesi. Gli impianti tessili e labour intensive si trasferiscono dalla Cina alla Cambogia. Phnom Penh ha confermato anche in sede ASEAN le sue posizioni, impedendo l’unanimità ricercata dagli altri Paesi che esprimevano preoccupazione per la presenza cinese nelle acque contese.
Il cammino di Laos e Cambogia si conferma quindi articolato, complesso e costellato da incertezze più grandi di loro. I due Paesi hanno tuttavia registrato progressi innegabili, misurabili dalla riduzione della povertà, dell’analfabetismo, delle malattie endemiche, dall’inclusione sempre più solida nella dimensione globale. Non sono mancate spregiudicatezza della politica, alternanza di chiusure e aperture, remore delle organizzazioni per i diritti umani. Un destino di sottomissione sembra al tramonto, pur nel tragitto faticoso verso la pace e l’indipendenza.
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