Se dal 2000 al 2020 abbiamo visto raddoppiare il peso economico del blocco formato dall’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN), guardando al 2030 possiamo immaginare che il PIL del Myanmar possa addirittura triplicare.
Sotto la gestione britannica (1886-1937), la Birmania era una delle colonie più ricche. Era il più grande esportatore del mondo di riso e durante l’amministrazione britannica era un importante fornitore di petrolio con la Burman Oil Company. Produceva il 75% del tech nel mondo e il Paese si credeva sulla via di un veloce sviluppo[1].
Questa stessa porzione del Sud-Est asiatico, stretta tra Bangladesh, India, Cina, Laos, Thailandia, Golfo del Bengala e Mare delle Andamane, è invece ancora oggi uno dei Paesi più poveri al mondo. Il PIL pro capite si attesta infatti a poco più di 1.300 dollari[2], meno del vicino Bangladesh (circa 1700 dollari), meno della metà di quello indonesiano e meno di un ottavo del PIL pro capite della Malaysia.
Per avere un accenno di comprensione dello stato confusionale in cui vive il Paese, dagli anni Trenta del XX secolo – e presumibilmente fino agli anni Trenta del nostro secolo – è interessante guardare all’evoluzione del toponimo che designa questo Stato.
Le denominazioni “Birmania”, in italiano, e “Burma”, in inglese, sono gli esonimi[3] che l’Occidente ha tradizionalmente utilizzato, e derivano dall’endonimo colloquiale “Bama”. Dopo il colpo di Stato del 1988, il regime cambiò il nome ufficiale. Dal momento che l’espressione Bama sarebbe stata legata all’etnia maggioritaria dei Bamar, e quindi sgradita alle minoranze locali, si decise di prendere spunto da un altro endonimo, meno colloquiale ed etnicamente neutro, “Myanma”. Nel 1989, con una legge dello Stato, venne aggiunta una erre per facilitare la pronuncia in inglese.
Gli etimologi considerano le argomentazioni del regime false[4], visto che Myanma(r) e Burma o Birmania provengono dalla stessa radice (Bama/Myama), hanno la stessa valenza semantica, ma soprattutto sono stati utilizzati in modo intercambiabile per secoli.
Il risultato è che l’Unione Europea (UE) usa entrambi i nomi: Myanmar/Burma. I governi di Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Australia hanno continuato a usare la denominazione Burma (Birmania), mentre le Nazioni Unite, l’ASEAN, il Giappone, la Cina e l’India hanno adottato il nome Myanmar. La BBC utilizzò esclusivamente Burma, adottando l’uso di Myanmar a partire dal 2014. Similmente, hanno adottato la dizione Myanmar il New York Times, nel 1989, l’Associated Press, nel 2006, e il Financial Times, nel 2008. L’Italia utilizza il nome ufficiale di “Repubblica dell’Unione del Myanmar”, seguendo dunque l’indicazione del governo birmano, più per una sorta indifferenza che per una vera convergenza di interessi[5].
I capitali italiani investiti in Myanmar sono tradizionalmente limitati, trattandosi di qualche piccola realtà operanti nel settore del turismo e della ristorazione. L’assenza di vere presenze dirette italiane nel recente passato è anche abbastanza comprensibile; solo dal 23 aprile 2012, quando vi è stata la sospensione di un anno delle sanzioni dell’UE, le aziende italiane hanno potuto riaffacciarsi legalmente sul mercato birmano. La successiva eliminazione definitiva delle sanzioni europee verso il Myanmar, decisa il 22 aprile 2013, ha ovviamente favorito lo sviluppo della cooperazione economico-commerciale del Myanmar, anche con il nostro Paese.
Queste date hanno quindi segnato l’apertura di una finestra temporale che si è inizialmente tradotta soprattutto in analisi delle opportunità commerciali e di investimento del Myanmar da parte delle aziende italiane. I flussi commerciali negli ultimi anni si sono mostrati sempre in aumento con un rallentamento nel 2015, probabilmente dovuto all’incertezza del quadro politico nel periodo pre-elettorale. In ogni caso, l’Italia si colloca al 14° posto tra i partner commerciali del Myanmar.
Dal 2012 si registra un crescente interesse di alcuni grandi gruppi come ENEL, Unicredit e Finmeccanica, mentre, il primo e più importante investimento è stato quello di ENI che, il 10 ottobre 2013, si è aggiudicato il permesso di esplorazione di due blocchi di potenziali giacimenti di idrocarburi onshore e il 26 marzo 2014 di due blocchi offshore.
Le relazioni politiche con l’Italia sono positive e lo stato dell’arte è stato suggellato dalla visita dell’ex Ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni, in Myanmar (6-8 aprile 2016), in occasione della quale egli ha incontrato il neoeletto presidente birmano U Htin Kyaw e il Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi. Gentiloni è stato il primo membro di un governo occidentale a fare visita al Paese, all’indomani dell’insediamento del nuovo esecutivo. L’attuale Commissario Europeo agli Affari Economici è stato seguito da una variegata delegazione imprenditoriale, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Danieli, Pirelli, Tenaris e SACE. Infine, vale la pena di segnalare che non esistono contenziosi in essere con l’Italia che gode, generalmente, di un’immagine positiva come partner commerciale in Myanmar[6].
È un dato di fatto che le condizioni economiche e politiche del Paese siano estremamente peculiari e necessitino di attori con mezzi e risorse adatti a navigare in uno scenario sì di crescita, ma anche difficilmente intellegibile. Nei settori degli idrocarburi, dell’energia elettrica, delle fonti rinnovabili, del turismo, dell’agricoltura, della manifattura e dell’abbigliamento, della costruzione e delle infrastrutture e infine dei servizi finanziari l’interesse reciproco esiste e potrebbe dare risultati interessanti.
Purtroppo, però, il Myanmar dal 2017 è ritornato agli onori – forse più giusto dire agli orrori – della cronaca a causa della crisi umanitaria dei Rohingya. Considerare la questione un affare legato alla sicurezza nazionale o un tentativo di genocidio non è lo scopo di questo articolo, ma, di certo, l’immagine di un Paese che tenta di affacciarsi sul panorama politico-economico come realtà emergente risulta fortemente danneggiata. I Rohingya sono un gruppo etnico di fede musulmana che risiede principalmente nel nord dello stato birmano del Rakhine. Gruppi di Rohingya vivono anche in Bangladesh. In totale, la popolazione Rohingya conta circa 1,1 milioni di persone. I Rohingya non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania. Una legge del 1982 nega loro la cittadinanza e per questo lo Stato li considera apolidi. Di conseguenza, sono soggetti a diverse discriminazioni e il loro accesso ai servizi statali (sanità, educazione, libertà di movimento) è limitato.
Nel 2012 le tensioni tra i Rohingya e la maggioranza buddista nel Rakhine sono esplose provocando violenti scontri e causando la fuga di decine di migliaia di musulmani che si sono trovati confinati nei diversi campi profughi sparsi nel Paese e nel vicino Bangladesh. L’ottobre del 2016 ha registrato un nuovo picco di tensione nella zona, con l’uccisione di alcuni militari birmani e la repressione della popolazione Rohingya. Negli anni, entrambe le parti hanno accusato l’altra di uso eccessivo della violenza.
Il 25 agosto 2017 nuovi scontri sono scoppiati tra la maggioranza buddista dei birmani e la minoranza musulmana Rohingya, provocando circa mille morti. L’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha definito la risposta militare birmana “sproporzionata”, rispetto agli attacchi dei militanti Rohingya e ha definito quello in atto un esempio di “pulizia etnica”[7]. Dall’agosto del 2017 centinaia di migliaia di Rohingya sono scappati dal Myanmar e si sono rifugiati nei campi profughi del vicino Bangladesh. A partire dal novembre del 2018 i governi di entrambi i Paesi hanno più volte annunciato l’inizio del loro rimpatrio. Di fatto i Rohingya che sono tornati in Myanmar, dove non è stata offerta loro alcuna garanzia di sicurezza, sono solo poche decine. Il Myanmar pare abbia fatto ben poco per assicurare ai Rohingya un cambiamento delle condizioni che hanno portato alle violenze.
Intanto, però, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja si è dichiarata competente a pronunciarsi sull’accusa di “genocidio” contro la minoranza musulmana dei Rohingya, a carico del governo del Myanmar. La Corte ha anche ordinato al Myanmar di adottare “tutte le misure in suo potere” per prevenire il presunto genocidio contro i musulmani Rohingya.
Parere, questo, diametralmente opposto a quello sostenuto da Aung San Suu Kyi. Il 18 dicembre scorso, di fronte alla Corte, nella sua replica alle accuse pronunciate dai legali del Gambia (Paese che ha sostenuto l’accusa di “genocidio”), il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha tuonato che la Birmania non va chiamata in causa per crimini contro l’umanità, altrimenti il conflitto che è sfociato nel massacro dei Rohingya riprenderà[8]. Di certo non un atteggiamento conciliante e distensivo, a tutto discapito del reinserimento del Myanmar nelle catene globali del valore.
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[1] Cfr. i dati disponibili al sito http://investvine.com/myanmars-economy-to-quadruple-by-2030/.
[2] Cfr. i dati disponibili al sito https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.PCAP.CD?locations=MM.
[3] A titolo esemplificativo: Deutschland è un endonimo, Germania è un esonimo italiano per indicare la stessa nazione e Allemagne è l’esonimo francese sempre per lo stesso luogo. Di esonimi ce ne possono quindi essere molti, ma l’endonimo è uno solo, con l’eccezione di aree ufficialmente plurilingui.
[4] Cfr. “Should you say Myanmar or Burma?”, The Economist, 20 dicembre 2016.
[5] Cfr. Rappresentanze diplomatiche straniere in Italia, la cui lista è disponibile online al sito https://www.esteri.it/mae/it/servizi/stranieri/rapprstraniere.
[6] Cfr. il link disponibile al sito http://www.infomercatiesteri.it/paese.php?id_paesi=134#slider-1.
[7] Cfr. il link disponibile al sito https://tg24.sky.it/mondo/2017/09/19/rohingya-chi-sono.html.
[8] Cfr. il link disponibile al sito https://www.avvenire.it/mondo/pagine/myanmar-la-minaccia-di-suu-kyi.
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