Le dinamiche demografiche che per lungo tempo hanno favorito la crescita economica della Cina, che ha oggi 1,3 miliardi di abitanti, sono potenzialmente destabilizzanti.
Dopo la forte crescita demografica del periodo maoista, l’introduzione da parte di Deng Xiaoping, nel 1980, della politica del figlio unico ha condizionato il processo di evoluzione naturale della popolazione, modificandone struttura e composizione. Trent’anni più tardi, i risultati di questa politica appaiono oramai evidenti e pongono una serie di nuove questioni. A partire dagli anni ’80, il tasso medio di crescita della popolazione ha iniziato a ridursi. Questa tendenza si è intensificata negli anni ’90 spingendo i tassi al di sotto dell’1% (Figura 1). A parità di condizioni, le Nazioni unite, basandosi sull’andamento storico, prevedono tassi prossimi allo zero e poi negativi dal 2020.
Ma la politica del figlio unico ha anche modificato la composizione della popolazione: è cresciuta la componente maschile delle nascite rispetto a quella femminile. Se all’inizio degli anni ’80 si contavano all’incirca 1,07 nuovi nati di sesso maschile per ogni nuova nata, il rapporto è arrivato a 1,17 (Figura 2). In termini assoluti, una differenza di circa 34 milioni tra uomini e donne. Con molti nuovi nati oggi già in età adulta, analisi sociologiche evidenziano comportamenti devianti dovuti, tra l’altro, alle difficoltà nel trovare moglie.
Ma c’è una conseguenza forse più preoccupante a livello sistemico di queste politiche e dei bassi tassi di fertilità. Secondo le ultime statistiche sui trend demografici, che sono in linea con i risultati del censimento del 2010, la popolazione attiva ha iniziato a ridursi in termini relativi. Ciò si tradurrà nei prossimi anni in un continuo aumento dei tassi di dipendenza, per effetto anche della crescita della popolazione più anziana dovuta al migliore stile di vita e al conseguente innalzamento dell’aspettativa di vita (oggi intorno ai 76 anni per le donne e 72 per gli uomini).
Come illustrato nella Figura 3, negli ultimi trent’anni la Cina ha sfruttato una “finestra demografica”, ovvero una riduzione dei tassi di dipendenza e una crescita della popolazione attiva, che ha consentito un’adeguata offerta di lavoro insieme ad elevati livelli di risparmio. Allo stesso tempo, la migrazione della forza lavoro dalle aree rurali a quelle urbane ha contribuito a una più efficiente distribuzione delle risorse, garantendo aumenti diffusi della produttività totale. Già intorno alla metà del nuovo secolo, secondo alcune analisi, la Cina raggiungerà il “punto di svolta”, che nella teoria di Arthur Lewis, implica l’esaurimento della riserva di lavoro a basso costo che tanto ha contribuito allo sviluppo del paese negli ultimi decenni.
La maggior domanda di lavoro, più che da nuovi entranti nel mercato, dovrà essere soddisfatta da una nuova ondata migratoria dalle campagne verso le città. Ciò contribuirà, tra l’altro, a inasprire il già forte divario tra campagna e città (negli ultimi anni la quota di popolazione urbana ha superato quella rurale, figura 4), con un’ulteriore espansione dei grandi agglomerati urbani. La crescita della quota di popolazione urbana che risiede in agglomerati sempre più popolati è impressionante (figura 5). È un trend difficilmente reversibile, che impone delle riflessioni sulla gestione amministrativa e sociale delle aree in espansione, specialmente per quanto riguarda l’integrazione dei nuovi migranti dalle campagne, anche in vista di una nuova riforma del sistema di registrazione delle famiglie residenti nelle varie aree (hukou).
Le dinamiche demografiche pongono una serie di sfide alla stabilità economica e sociale della Cina, che impongono riforme che tengano conto di una società che invecchia rapidamente (si veda, a questo proposito, l’articolo di Zhao Minghao su OrizzonteCina di aprile 2012) con grossi oneri per il sistema di finanza pubblica (si pensi alle maggior spese previdenziali e sanitarie), e un’offerta di lavoro che inizia a non essere abbastanza robusta da sostenere la domanda, tuttora in crescita.
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