Fino a che punto la pressione internazionale può influenzare la posizione della Cina all’interno del consesso delle nazioni? E’ un dubbio che inquieta da tempo le cancellerie mondiali ed è aleggiato al G20 dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali, svoltosi il 18-19 febbraio a Parigi.
Uno dei principali argomenti all’ordine dell’incontro del G20, che ha segnato il debutto della presidenza francese, era l’individuazione degli indicatori da monitorare per evitare crisi finanziarie future e per porre rimedio agli squilibri economici globali. Come affermato nel comunicato finale del vertice, per valutare lo stato dell’economia mondiale, per ogni Paese sarà esaminato “il debito pubblico e il deficit fiscale, il tasso di risparmio privato e il debito privato (un criterio fortemente voluto dal governo italiano, ndr), e lo squilibrio esterno composto dalla bilancia commerciale, dai flussi netti di reddito da investimenti e trasferimenti, tenendo in debita considerazione le politiche di tasso di cambio, fiscali, monetarie e altre politiche”. Entro aprile, per ciascun parametro saranno individuate le “direttive indicative” (non degli obiettivi precisi), sulla cui base il Fondo Monetario Internazionale dovrà produrre (entro il prossimo ottobre) un’analisi delle politiche economiche dei paesi del G20.
Due considerazioni emergono al riguardo: anzitutto, il vertice segna un primo passo verso un maggiore coordinamento delle politiche economiche degli stati (qualcuno direbbe che si tratta di un ulteriore trasferimento di sovranità dai governi nazionali alla finanza globale), con l’affidamento di fatto di un ruolo sempre più rilevante alle banche centrali.
In secondo luogo, la scelta degli indicatori è frutto di un evidente compromesso, e lascia spazio a varie interpretazioni. Infatti, Brasile, India, Russia e Cina si sono opposte a qualsiasi riferimento chiaro ed esplicito alla bilancia delle partite correnti e alle riserve valutarie. Secondo la testimonianza di alcuni negoziatori, raccolta dal Financial Times, la Cina era anche contraria dall’inizio a introdurre qualsiasi riferimento ai tassi di cambio, ma, trovandosi isolata, ha dovuto cedere alle pressioni di Stati Uniti, Germania e Francia e accettare la peraltro blanda indicazione contenuta nel comunicato finale. D’altro canto, mentre gli Stati Uniti volevano l’inserimento tra gli indicatori anche del tasso di cambio reale, il ministro delle finanze cinesi, Xie Xuren, ha posto il veto di Pechino.
Al vertice, Xie Xuren ha insistito invece su alcuni obiettivi che stanno a cuore alla Cina: rafforzare la cooperazione sulle questioni economiche mondiali; mantenere la stabilità delle principali monete di riserva; ridurre la speculazione sui mercati finanziari; combattere le risorgenti tentazioni protezionistiche. Dal canto suo, il ministro ha ricordato che anche per il 2011 la Cina perseguirà l’obiettivo di migliorare il proprio modello di crescita, in modo che sia trainato dai consumi, dagli investimenti e dalle esportazioni in modo più equilibrato (sottinteso: il surplus commerciale potrebbe diminuire).
Se lo scopo del vertice doveva essere quello di attuare il desiderio del segretario al tesoro americano, Tim Geithner, che l’anno scorso aveva auspicato l’adozione di obiettivi quantitativi per le partite correnti (cioè, con lo scopo di ridurre il surplus cinese e tedesco), il G20 di Parigi è stato un fallimento. Se, più modestamente, l’incontro dei ministri delle finanze doveva dare un segnale della volontà politica di impedire che gli squilibri economico-finanziari degenerino in protezionismo, guerre commerciali, e nuove devastanti crisi economiche, la presidenza francese, malgrado i suoi obiettivi troppo ambiziosi, inizia con un primo importante risultato. Tuttavia, dietro tutte le discussioni al G20 di Parigi aleggiava lo spettro di una riforma del sistema monetario internazionale, sempre più ineludibile, e che costituirà il vero test della tenuta dell’ordine internazionale, di fronte all’ascesa cinese.
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