Lo scorso 23 novembre colpi di artiglieria nordcoreani hanno colpito l’isola sudcoreana di Yeonpyeong, lungo il confine marittimo occidentale della penisola, uccidendo due soldati e due civili in quella che è normalmente un comunità di 1.300 residenti. Si tratta dell’episodio più grave nei già tesi rapporti tra le due repubbliche dalla fine della Guerra (1950-1953) che cristallizzò la divisione della penisola coreana lungo il 38° parallelo. La vista delle colonne di fumo nero che si innalzavano dalla struttura militare e dai tetti delle case circostanti ha colpito fortemente l’opinione pubblica sudcoreana e nella capitale Seoul si sono svolte, in un clima di tensione, manifestazioni per chiedere una linea più dura nei confronti dell’imprevedibile vicino settentrionale.
In realtà, sebbene la scelta di attaccare un’installazione sulla terraferma abbia portato la contesa a un nuovo livello di pericolosità, non si tratta del primo incidente nell’area. Se ne sono verificati già nel 1998, 2002 e 2009, pur “limitati” a scontri navali, con alcune vittime. Questa volta i nord-coreani hanno presentato l’attacco come una rappresaglia per le esercitazioni militari effettuate da Seoul, nel corso delle quali le forze armate sudcoreane avevano aperto il fuoco in acque contese tra le due parti.
Sta qui la causa originaria del contendere: durante le discussioni per l’armistizio del 1953, l’Onu – su pressione degli Stati Uniti – approfittò della debolezza della marina nordcoreana per tracciare la cosiddetta “Northern Limit Line”, che limita l‟accessibilità dello strategico porto nordcoreano di Haeju, e assegna al contempo a Seoul acque particolarmente ricche di risorse ittiche. La Corea del Nord non ha mai accettato questa decisione e contesta la sovranità sudcoreana su queste acque (molti giuristi ritengono che un arbitrato internazionale confermerebbe in buona parte le rivendicazioni di Pyongyang).
La reazione internazionale è stata di ferma condanna e gli Stati Uniti, confermando un indurimento dell’atteggiamento nei confronti della Corea del Nord – in linea con la politica del presidente sudcoreano Lee Myung-bak, che ha abbandonato l‟approccio accomodante della precedente amministrazione – hanno inviato una squadra navale (comprensiva di portaerei) nel Mar Giallo per esercitazioni congiunte con l’alleato.
Unica voce non allineata, la Repubblica popolare cinese (Rpc) ha invitato le parti a non cedere a pulsioni bellicose. Per Pechino, che ha attivato vari canali diplomatici per trovare un sbocco alla situazione, si tratta di un’ennesima umiliazione, inferta da un paese ritenuto utile in passato come “stato cuscinetto” e, più di recente, come “cliente”, ma sempre più percepito come fattore di mera destabilizzazione nella regione.
La presenza di navi americane nel Mar Giallo a poche centinaia di chilometri dal territorio cinese è fonte di imbarazzo per Pechino (che deve tener conto, tra l’altro, delle crescenti pulsioni nazionaliste delle proprie forze armate), pur non minacciando di per sé la sicurezza nazionale cinese. D’altra parte, l‟attacco nordcoreano favorisce il consolidarsi del triangolo di sicurezza Stati Uniti – Corea del Sud – Giappone, che nell’immediato, è rivolto a fronteggiare la minaccia di Pyongyang, ma potrebbe svolgere azione di contenimento nei confronti della stessa Cina.
Secondo alcuni commentatori, la violenta iniziativa nordcoreana mirava a far passare in secondo piano un altro evento recente. Appena pochi giorni prima dell’attacco, Siegfried Hecker, già direttore del Laboratorio nazionale di Los Alamos (una delle due “capitali” del nucleare militare statunitense), era stato invitato a visitare il centro di ricerca nucleare nordcoreano di Yongbyon, scoprendo come il regime di Pyongyang disponga di strutture per l’arricchimento dell’uranio molto più sofisticate di quanto stimassero gli analisti internazionali.
Lo scenario più probabile, però, è che i due atti siano entrambi tesi a rimarcare l’impazienza con cui la leadership nordcoreana attende il ritorno di Seoul e Washington al tavolo dei negoziati sul programma nucleare, cui partecipano anche i cinesi.
A Pyongyang sembrano essere stati compiuti i passi formali necessari a garantire la successione del “Caro Leader” Kim Jong-il, malato e secondo alcuni destinato presto a uscire di scena. In realtà, al di là dei titoli onorifici, l’erede designato, il figlio Kim Jong-un, non pare aver ottenuto alcun incarico reale, dato che il padre non si è dimesso da alcun ruolo. In questa situazione estremamente fluida il fattore tempo riveste un‟importanza crescente e la pressione di Pyongyang sulle diplomazie sudcoreana, statunitense e cinese è destinata a crescere.
L’obiettivo del regime è, in sintesi, assicurare la propria sopravvivenza attraverso la ripresa degli aiuti internazionali da parte di Washington e Seoul (Pechino già ne concede da anni). Si tratta di aiuti che erano stati concessi nella speranza – finora frustrata – che potessero indurre i nordcoreani a negoziare una fuoriuscita dal programma nucleare. Occorre peraltro notare che dalla metà degli anni ’90, alla tradizionale dottrina politica nordcoreana – denominata juche ed evolutasi nel tempo da declinazione del “socialismo in un solo paese” a un nazionalismo autarchico, non privo di accenti razzisti e sganciato da ogni riferimento al marxismo-leninismo – si è affiancata la politica songun, che postula la preminenza delle forze armate sul resto della società. Non v’è dubbio, dunque, che a beneficiare degli eventuali aiuti sarebbero innanzitutto i militari e questo è uno dei fattori che ostacola la ripresa dei negoziati. In ogni caso, la ripresa degli aiuti consentirebbe al massimo di guadagnare tempo, ma lascerebbe inalterati i problemi di fondo.
Né il cinismo machiavellico di Pyongyang né l’atteggiamento più risoluto di Seoul e Washington sembrano destinati a cambiare. A fare la differenza potrebbe essere un cambiamento di approccio a Pechino. Che però appare anch’esso improbabile, specialmente in una fase in cui anche la leadership cinese è impegnata in una complessa transizione interna. Né, invero, vi è alcuna certezza che maggiori pressioni della leadership cinese su Pyongyang basterebbero a superare l’impasse.
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