Si tende sempre più a vedere nella Cina una nascente potenza navale. In particolare, in Asia orientale Pechino appare sempre più decisa a difendere le proprie rivendicazioni su isole e acque contese. Le tensioni hanno raggiunto livelli di guardia soprattutto con il Giappone, con le dure reazioni cinesi alla decisione assunta dal governo di Tokyo nel 2012 di nazionalizzare le isole Senkaku, rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu. La tensione è cresciuta anche con Vietnam e Filippine. In questo contesto desta preoccupazione la modernizzazione della marina militare cinese, che ha acquisito una prima portaerei nel 2012, mentre indiscrezioni di stampa parlano della costruzione di una seconda e forse anche di una terza unità.
Questo interesse della Cina per i mari appare in contrasto con la tradizionale politica di sicurezza del paese. Sin dalla fine del XVII secolo, infatti, la Cina ha attribuito agli spazi marittimi una valenza militare secondaria rispetto alle periferie continentali. Certo, storicamente i mari hanno giocato un ruolo importante nella più ampia equazione della potenza cinese: il dominio esercitato dalla marina mercantile cinese sulle acque della regione ha contribuito significativamente alla prosperità economica del paese nella fase di maggior splendore della dinastia Qing. Dal punto di vista militare, tuttavia, questi stessi spazi marittimi avevano agli occhi dei governanti cinesi un valore tutto sommato marginale. Prevaleva un orientamento continentale, che sarebbe stato confermato anche nei primi tre decenni di vita della Repubblica popolare cinese, dominati dal problema della sicurezza alle frontiere continentali.
Per comprendere le ragioni di questa recente discontinuità si deve guardare alle interazioni fra nuovi interessi regionali e nascenti interessi globali della Cina contemporanea. Più in particolare, si deve risalire ai primi anni Ottanta: fu infatti allora – sullo sfondo delle profonde trasformazioni economiche e politiche del paese – che gli spazi marittimi dell’Asia orientale acquisirono per Pechino un valore strategico del tutto nuovo. Sin dal decennio precedente, rilevazioni compiute nei mari dell’Asia orientale avevano suggerito la presenza nel sottosuolo di considerevoli riserve di idrocarburi. Seguiva l’occupazione di isole e scogli da parte di taluni stati della regione, in particolare le Filippine e l’allora Vietnam del Sud. L’autorità della Cina su spazi marittimi formalmente rivendicati ma di fatto fuori dal controllo di Pechino veniva così messa in discussione, proprio nel momento in cui la traiettoria della politica interna cinese – tutta orientata verso nuove priorità di sviluppo economico – caricava di un valore senza precedenti le risorse potenzialmente presenti nei mari contesi. Da qui un nuovo interesse per le acque regionali, cui corrispondeva un’espansione geografica del raggio d’azione della marina militare, con il passaggio dalla dottrina della “difesa costiera” (jin’an fangyu, 近岸防御) a quella della “difesa nei mari vicini” (jinhai fangyu, 近海防御).
Un secondo, decisivo fattore si sarebbe aggiunto negli anni novanta: il manifestarsi di forti spinte indipendentiste nell’isola di Taiwan. Sin dal 1949 un tacito accordo aveva regolato le relazioni tra Pechino e Taipei, dietro lo scontro ideologico e oltre le ricorrenti crisi militari: l’esistenza di un’unica Cina, di cui tanto il continente quanto l’isola di Taiwan erano considerati parte. Ma il processo di democratizzazione vissuto da Taiwan tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta aveva aperto nuovi varchi per posizioni di aperto indipendentismo. Lo status quo che per quarant’anni aveva retto le pur burrascose relazioni tra le due sponde dello Stretto appariva a rischio come mai prima, e ancor di più l’obiettivo della riunificazione nazionale. Per Pechino si poneva quindi l’esigenza di mettere in atto un’efficace strategia di deterrenza, che prevenisse una formale dichiarazione d’indipendenza di Taipei con la minaccia di un inesorabile ricorso alla forza armata. Taiwan era dopo tutto un’isola, e la credibilità di questa strategia di deterrenza richiedeva il rafforzamento delle capacità navali: i mari divenivano così centrali nel calcolo di sicurezza nazionale.
Controllo sulle acque contese e riunificazione nazionale: a questi interessi regionali si sarebbe aggiunto – con l’inizio del nuovo secolo – anche un interesse marittimo potenzialmente globale. Sempre più integrata nel sistema economico internazionale, la Cina dipende ormai in modo cruciale dai commerci con l’estero, condotti prevalentemente via mare: nell’arco di 15 anni, dal 1992 al 2007, il valore del commercio estero via mare è passato da poco più del 20 a poco meno del 40 per cento del prodotto interno lordo cinese. Per la Cina diviene quindi cruciale la sicurezza delle vie di comunicazione marittima internazionali: si è consolidato un nuovo interesse alla sicurezza marittima, non più circoscritto alle acque della regione, ma potenzialmente esteso ad acque globali. Ne deriva una nuova espansione del raggio d’azione della marina militare, verso “mari lontani” (yuanhai, 远海). La partecipazione della Cina alle attività internazionali di contrasto della pirateria al largo della Somalia rappresenta la più chiara manifestazione di questo superamento dei confini dell’Asia orientale.
L’interazione fra interessi regionali e interessi globali offre una chiave di lettura dell’ascesa della Cina e del suo impatto sull’ordine internazionale. In effetti la compresenza di regionale e globale è la cifra stessa dell’ascesa della Cina – potenza regionale con evidenti propensioni globali, ma tuttora incapace di compiere il salto verso lo status di potenza pienamente globale. È qui che si gioca la partita delle relazioni tra la Cina in ascesa e l’egemone in carica, gli Stati Uniti: l’accesso militare all’Asia orientale resta un tassello fondamentale del potere globale degli Stati Uniti, ed è per questo che lo sviluppo delle capacità di controllo e interdizione dei mari da parte cinese viene percepito a Washington come una sfida diretta all’egemonia americana.
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