La comunità queer cinese e i/nei media: la visibilità come paradosso

La rappresentazione mediale di minoranze sessuali e di genere è un fenomeno al quale va riconosciuto il peso che merita. Questo perché “il modo in cui certi gruppi sociali sono trattati in una rappresentazione culturale è parte integrante di come questi sono poi trattati nella vita reale […] Come siamo visti determina, in parte, il modo in cui saremo trattati; trattiamo gli altri in base a come li vediamo; ed è proprio alla rappresentazione che dobbiamo questo ‘vedere’”.[1]  Per gli individui LGBTQ, specialmente quelli che vivono in località dove le comunità queer – così come programmi di supporto alle stesse – sono assenti, la rappresentazione assume così un’importanza vitale, esercitando un forte impatto sulle loro identità, e sul loro “senso di sé”. Una comprensione approfondita delle identità, delle comunità e delle politiche queer dipende dunque da una comprensione altrettanto approfondita della visibilità mediale degli individui queer.

Nell’ultimo decennio gli studi di media e cultura cinesi hanno registrato una nuova tendenza. Un crescente corpus letterario ha esaminato criticamente le politiche della rappresentazione soffermandosi su come le immagini delle comunità queer cinesi passino da e attraverso i media e la cultura popolare, e ha allo stesso tempo studiato la relazione che lega queste immagini alla formazione delle identità omosessuali. Con la riconfigurazione dei media cinesi e con la digitalizzazione della sfera del visibile, ad attirare maggiore attenzione sono state le immagini di queer cinesi presenti nel videoattivismo digitale, nella web TV gay, nel microcinema e nelle applicazioni di incontri online. Le nuove tecnologie dei media hanno indubbiamente contribuito a favorire la visibilità degli individui queer cinesi. Questo tipo di visibilità nondimeno cela delle contraddizioni intrinseche, poiché “incoraggia la tolleranza attraverso stereotipi dannosi; diminuisce l’isolamento al prezzo dell’attivismo, si accontenta dell’assimilazione barattandola con l’uguaglianza, e converte il radicalismo a una nicchia di mercato”.[2]  In questo articolo dedicato ai nuovi media, dunque, si vuole demistificare il loro essere percepiti come strumenti rivoluzionari a disposizione della comunità queer cinese, sviscerando le aspettative e gli obiettivi incompatibili che riguardano la crescente visibilità degli individui queer nella Cina contemporanea. In particolare, occorre trattare i temi paradossali del “coming-out” e della “popolarità” che tendono a “cominciare da asserzioni che riguardano un bene positivo e che sono accettate come reali –progresso, mezzi finanziari, accettazione, abilità digitali – ma il valore delle quali si rivela essere negativo almeno in parte, contrariamente alle aspettative”.[3]

Nel giugno 2017 l’organizzazione PFLAG China (Parents and Friends of Lesbians and Gays) ha organizzato una crociera di quattro giorni per accompagnare decine di membri della comunità LGBTQ, le loro famiglie e amici lungo un percorso formativo finalizzato alla comprensione reciproca e a una maggiore inclusione degli individui LGBTQ nella società cinese (immagine: PFLAG China).

La cultura queer presta particolare attenzione al discorso della “visibilità”, un tema cardine della retorica degli attivisti LGBTQ. Fare “coming out” è stata una delle narrazioni chiave dell’identità queer non solo nei paesi occidentali ma anche in Cina, e si ritiene che proprio attraverso di essa le rappresentazioni culturali delle comunità queer stiano progressivamente superando la propria condizione di marginalità per entrare a far parte della cultura di massa. Le politiche del coming out sono state oggetto di considerevoli critiche. Come sostenuto da Sullivan, “fare coming out ha i suoi pro e i suoi contro, ma, in ogni caso, il motivo che spinge un individuo a fare coming out sembra presuppone che quest’azione sia trasformativa in sé e per sé, e che l’identità che uno dichiara pubblicamente debba per forza essere priva di ambiguità – sunti, questi, che i teorici post-strutturalisti trovano problematici a livello intrinseco”.[4] La retorica del coming out non sembra inoltre saper “descrivere le esperienze di quegli omosessuali per i quali l’aver ottenuto il riconoscimento della propria identità sessuale non tradizionale è stato un procedimento molto meno catastrofico, o di coloro ai quali fare coming out non serve come espediente per riparare i danni di previe false esperienze”.[5]

In realtà il coming out, attraverso la sua rappresentazione retorica, richiede all’individuo di fare proprio l’opposto: “going in” (“andare dentro”, posto in contrapposizione al “venir fuori” del coming out, ndt). Barnhurst osserva che “l’esperienza [del coming out] sembra assumere un senso solo nelle condizioni del nascondersi, e il pensare in termini di coming out riassume un’ampia gamma di stati d’animo – confusione, dubbio, paura, silenzio, ignoranza, o semplice indifferenza – in un solo pacchetto […] diversi decenni di visibilità queer hanno avuto come effetto quello di rivelare che questi altri stati d’animo non sono tutti uguali”.[6] Nel contesto dell’attivismo cinese LGBTQ, questo paradosso si è cristallizzato nel dibattito del “coming out/coming home”, che è stato un tema controverso e molto discusso nell’ambito degli studi queer cinesi dai tardi anni Novanta. Alcuni studiosi hanno tentato di “evidenziare la specificità culturale delle relazioni omoerotiche nelle società cinesi”, sostenendo che il “sistema di vicinanza familiare cinese è il fattore chiave della differenziazione tra l’omosessualità identitaria e sociale ‘occidentale’ e quella ‘cinese’”. Altri autori criticano invece “la violenza e l’esclusione perpetuate nel nome della famiglia cinese”.[7]

In occasione delle celebrazioni per il Capodanno cinese del 2015, PFLAG China (Tóngxìngliàn qīnyǒu huì, 同性恋亲友会), la più influente organizzazione della comunità LGBTQ in Cina, fece circolare un video intitolato Coming Home (huí jiā, 回家) per mostrare il proprio approccio “familio-centrico” al tema del supporto della comunità LGBTQ: un approccio che subito attirò l’attenzione del pubblico cinese. Per gli individui queer cinesi che non hanno ancora fatto coming out con le rispettive famiglie, tornare a casa per celebrare il nuovo anno è spesso un processo complicato che li obbliga a confrontarsi con le inevitabili domande dei familiari, prima fra tutte: “Dov’è il tuo ragazzo/ragazza (del sesso opposto)?”.

PFLAG China ha quindi fatto un uso tattico delle celebrazioni del Nuovo Anno cinese, facendole diventare simbolo del ricongiungimento familiare, oltre ad utilizzarle come espediente per conciliare le nozioni di “coming out” e di “coming home”. In ultima analisi, la strategia di PFLAG China incentrata sulla famiglia che evoca l’idea del “ritorno a casa” per offrire un’alternativa al concetto occidentale e individualista del sé (allo stesso tempo combinandolo con narrazioni occidentali di politiche identitarie), è un espediente che “rafforza la legittimità dell’ONG stessa all’interno del panorama cinese, oltre ad illustrare le caratteristiche non conflittuali delle sue politiche”.[8] Nonostante questo approccio incentrato sul rapporto dell’individuo LGBTQ con la propria famiglia sia utile alla creazione di strategie politiche che possano lanciare un segnale ai conservatori del contesto cinese, è necessario tuttavia sottolineare come PFLAG China contribuisca alla diffusione di un’idea di omosessualità predefinita, che è di per sé concettualizzata come immutabile, innata, duratura, e che rischia di marginalizzare ulteriormente gli individui cinesi queer, che “risiedono al di fuori di quel binomio che ci permette anche solo di parlare di sessi uguali e opposti, o che si trovano al suo centro, o che si muovono al suo interno, o che lo rifiutano”. [9] Allo stesso tempo, questo ideale porta avanti un’agenda desessualizzata che evita di prendere in considerazione quelle intimità, quelle relazioni omosessuali che sono incomprensibili per l’istituzione del matrimonio, e che si collocano al di fuori di esso.

Un’altra domanda posta da Noah Tsika riguarda la comprensione delle esperienze degli individui queer in Cina: “[L’esperienza] queer e i suoi metodi devono forse essere intesi necessariamente come anti-capitalistici, profondamente e inestricabilmente critici e refrattari alla commercializzazione e al protocollo istituzionale?”.[10] La visibilità queer, al contrario, può trarre beneficio dalla sua popolarità e dalle dinamiche del mercato. Deirdre McCloskey osserva che il mercato non è necessariamente ostile alle comunità queer, specialmente in contesti politici al di fuori del mondo occidentale, “anche laddove il governo controllasse tutte le testate giornalistiche, i canali televisivi, internet e i forum pubblici”.[11] Dato che ci sono stati controlli stringenti sull’omosessualità nei media cinesi, i testi dei media popolari potrebbero essere visti come potenti risorse per alcuni queer cinesi contro i poteri dominanti. L’osservazione di McCloskey, tuttavia, corre il rischio di semplificare eccessivamente la situazione dei media cinesi e di un sistema di comunicazione che è forgiato da complesse dinamiche di potere tra lo Stato, il mercato, e la società civile. McCloskey ha però ragione a sostenere come il potere del mercato possa sostenere il progetto della libertà queer e andare in direzione contraria a coloro che considerano il capitalismo come una categoria astratta, o che considerano l’economia come monolitica e monologica.

Una comprensione piena dell’esperienze di vita delle minoranze sessuali cinesi e delle loro relazioni con i media ci obbliga a prendere in considerazione un approccio contestuale radicale che riconosce che la rappresentazione e la pratica culturale queer e il loro contesto sono legati in maniera organica. Questa visione contestualizzante della visibilità queer in Cina potrebbe permetterci di mettere in dubbio l’applicabilità della teoria queer in società non-occidentali. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescente copertura mediatica che i media occidentali hanno riservato all’omosessualità in Cina. E’ sempre più comune imbattersi in reportage dedicati a Blued, applicazione cinese di incontri omosessuali descritta come un’ “impresa sociale LGBTQ” supportata dal governo cinese, all’avanguardia dell’economia rosa (fenhong jingji, 粉红经济) cinese. Come suggerito dal titolo di un rapporto del Wall Street Journal dedicato a Blued, “con l’inizio di un cambiamento di mentalità in Cina, la piattaforma di incontri omosessuali Blued ottiene il via libera” .[12] Alla luce di inaspettati sviluppi economici e tecnologici, gli uomini gay cinesi hanno ottenuto una popolarità fuori dal comune. Questa nuova ondata di popolarità tuttavia rischia di diventare pari a “un’illusione in grado di ostacolare la comprensione”.[13]

Nel momento in cui diventa di uso comune, l’espressione tipica di una contro-cultura potrebbe perdere la propria valenza e forza politica. Nei paesi occidentali, la cultura di massa tende a “restare affascinata dagli armamentari delle sotto-culture, ma solo quando la loro funzione pratica ha smesso di esistere”.[14] Lo stesso si può dire della relazione tra le sotto-culture gay e la cultura popolare in Cina. Quando l’espressività cinese omosessuale e sotto-culturale diventa parte delle tendenze segnate dal consumismo, specialmente con l’ascesa dell’economia rosa cinese, l’invisibilità queer può perdere la sua forza politica, diventando poco più di un feticcio o di un cliché duraturo. L’obiettivo finale dell’attivismo LGBTQ e dell’economia rosa cinese, tuttavia, non è mai stato solo quello della visibilità, ma di un certo tipo di visibilità. Interrogandosi sull’equazione di visibilità e progresso, James Allan sostiene che le immagini di omosessuali all’interno di media che sono gestiti dal mercato circolano a condizione che gli omosessuali rappresentati siano personaggi desessualizzati.[15] La visibilità queer resa possibile dalla digitalizzazione della sfera del visibile in Cina potrebbe “supportare una ristretta ma ampiamente accettata definizione dell’identità gay, vista come strumento di marketing, e può portare a integrare le persone omosessuali come persone che fanno parte di una nicchia di mercato”.[16] Nonostante il mercato non sia nemico degli individui queer cinesi, quando la visibilità queer diventa un’ottima prospettiva di affari, la domanda che dobbiamo porci è: “Per chi?”, e “Chi trae profitto da questi nuovi mercati?”.

In conclusione, la visibilità queer cinese mostra “un aspetto universale della vita umana, il simultaneo contrasto, concettuale e fisico, di condizioni aut-aut, o et-et”.[17] Per i queer cinesi potrebbe non esserci via d’uscita da questa condizione universale, ma è comunque possibile smascherarne alcuni contrasti attraverso un’analisi critica e contestualizzante, scegliendo inoltre quale visione supportare, e quale rifiutare.

Traduzione dall’inglese a cura di Carlotta Clivio

[1] Richard Dyer, The Matter of Images: Essays on Representation (London: Routledge, 2002), 1.

[2] Kevin G. Barnhurst, “Visibility as Paradox: Representation and Simultaneous Contrast”, in Media/Queered: Visibility and its Discontents, a cura di Kevin. G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2007), 1.

[3] Ivi, 2.

[4] Nikki Sullivan, A Critical introduction to queer theory (Edimburgo: Edinburgh University Press, 2003), 31.

[5] David Van Leer, The queening of America: gay culture in straight society (New York: Routledge, 1995), 124.

[6] Kevin G. Barnhurst, “Visibility as Paradox: Representation and Simultaneous Contrast”, in Media/Queered: Visibility and its Discontents, a cura di Kevin. G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2007), 5.

[7] Fran Martin, “Transnational Queer Sinophone Cultures”, in Routledge Handbook of Sexuality Studies in East Asia, a  cura di Mark McLelland e Vera Mackie (Oxon: Routledge, 2015), 37.

[8] Jia Lianrui e Zhou Tianyang, “The ‘Making’ of an Online Celebrity: a Case Study of Chinese Rural Gay Couple An Wei and Wu Yebin”, in Chinese Social Media: Social, Cultural, and Political Implications, a cura di Mike Kent, Katie Ellis, e Jian Xu, (New York: Routledge, 2017), 53.

[9] Ben Trott, “Same-sex Marriage and the Queer Politics of Dissensus”, The South Atlantic Quarterly 115 (2016) 2: 415.

[10] Noah Tsika, “CompuQueer: Protocological Constraints, Algorithmic Streamlining, and the Search for Queer Methods Online”, WSQ: Women’s Studies Quarterly, 44 (2016) 3-4: 114.

[11] Deirdre McCloskey, “Queer Markets” in Media/Queered: Visibility and its Discontents, a cura di Kevin G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2006), 86.

[12] Eva Dou, “As Attitudes in China Begin to Shift, Gay Dating App Blued Sees Green”, Wall Street Journal, 9 novembre 2015, https://blogs.wsj.com/chinarealtime/2015/11/09/as-attitudes-in-china-begin-to-shift-gay-dating-app-blued-sees-green/.

[13] Kevin G. Barnhurst, “Visibility as Paradox: Representation and Simultaneous Contrast” in Media/Queered: Visibility and its Discontents, a cura di Kevin G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2007), 13.

[14] Ivi, 12.

[15] James Allan, “And Baby Makes Three…: Gay Men, Straight Women, and the Parental Imperative in

Film and Television” in Media/Queered: Visibility and its Discontents, a cura di Kevin G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2007), 57-62.

[16] Rosemary Hennessy, Profit and pleasure: sexual identities in late capitalism (London: Routledge, 2000), 137.

[17] Kevin G. Barnhurst, “Visibility as Paradox: Representation and Simultaneous Contrast” in Media/Queered: Visibility and Its Discontents, a cura di Kevin G. Barnhurst (New York: Peter Lang, 2007), 2.

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