Ad agosto sono tornate ad accendersi le tensioni tra Cina e Giappone sulle isole Diaoyu, dopo che il Giappone ha arrestato i membri di una spedizione partita da Hong Kong e sbarcata sulle Diaoyu per riaffermare la sovranità della Cina sull’arcipelago. Il governo cinese, con la consueta indignazione, ha trasmesso al Giappone forti rimostranze diplomatiche, reclamando al tempo stesso l’immediata liberazione dei cittadini cinesi.
La controversia diplomatica ha scatenato una tempesta nell’opinione pubblica cinese. Ancora una volta si è rinfocolato il sentimento anti-giapponese già così diffuso nella popolazione, e in molte città si sono verificate manifestazioni contro le rivendicazioni giapponesi sulle Diaoyu. Ben presto i manifestanti hanno trasformato la protesta contro l’arresto di cittadini cinesi da parte giapponese in una vera e propria protesta contro il Giappone come paese. Per dimostrare la loro ira, i manifestanti hanno intonato slogan e issato striscioni, alcuni dei quali intrisi di retorica alquanto aggressiva. Si sono visti striscioni in favore di una nuova guerra sino-giapponese, che spazzi via le “umiliazioni” arrecate al popolo cinese dall’invasione giapponese. Uno striscione recitava: “Il Giappone deve essere annientato, anche se ciò significa che la Cina deve riempirsi di tombe”. Per le strade, cittadini cinesi infuriati hanno distrutto automobili di marca giapponese. Niente di tutto ciò è una novità: tutto assomiglia da vicino alle proteste cinesi del 2010, che fecero seguito alla cattura di un peschereccio cinese vicino alle Diaoyu da parte delle autorità giapponesi. Ma come interpretare questa vasta reazione dell’opinione pubblica cinese? È davvero il segnale incontestabile che i sentimenti dell’opinione pubblica cinese verso il Giappone lasciano poco spazio alla riconciliazione?
Alcuni atti sono degenerati in vero e proprio vandalismo, eppure la polizia cinese si è dimostrata tutto sommato indifferente. Il fatto che l’imponente schiera di poliziotti disposta nei luoghi delle manifestazioni abbia di fatto ignorato questi atti fa pensare che le manifestazioni anti-giapponesi siano una campagna orchestrata dal governo, più che una reazione impulsiva dei cittadini cinesi. Mentre le manifestazioni aizzavano la rabbia popolare per le strade, i commenti sui social network – e in particolare su Weibo, un social network simile a Twitter che consente ai blogger cinesi di pubblicare informazioni senza filtri – assumevano toni ben più razionali. La linea del boicottaggio dei prodotti giapponesi riscuoteva più critiche che consensi. Gli atti di vandalismo contro le automobili giapponesi venivano condannati e disprezzati. “Boicottare prodotti giapponesi significa, il più delle volte, boicottare i nostri stessi connazionali. ‘Sacrificare mille soldati per uccidere ottocento nemici’: questo sarebbe l’effetto virtuale di atti di questo genere”.
L’espansione dei social network ha reso evidente la crescente polarizzazione dell’opinione pubblica cinese. L’incidente delle Diaoyu è un caso di tutto rilievo, se si considera che il governo cinese pare godere di un sostegno pubblico schiacciante, quando è in gioco la sovranità territoriale. Con milioni di utenti registrati sui social network, i canali di espressione a disposizione dell’opinione pubblica non sono più sotto l’esclusivo controllo dell’apparato di propaganda. La gente comune ha ora una piattaforma per esprimere le proprie opinioni. Ciò rappresenta una grande sfida per la catena dell’informazione, in cui media e case editrici restano sotto lo stretto controllo degli organi di propaganda. Ciò non significa che la libertà di espressione sia garantita in Cina, ma che – entro certi limiti – i cittadini hanno ora uno strumento per articolare le loro opinioni.
La maggior parte dei cinesi non considera la politica estera una priorità nel dibattito pubblico. Il più delle volte i temi collegati alla politica estera non primeggiano nell’elenco dei temi più discussi nei social network cinesi. Le relazioni sino-giapponesi rappresentano, però, un’eccezione. La ferita sofferta dalla Cina con l’invasione giapponese del secolo scorso continua ad alimentare forti sentimenti di ostilità verso il Giappone. Azioni del governo giapponese o di privati cittadini giapponesi possono facilmente suscitare aspre reazioni in Cina. Il governo ne è ben consapevole ed è appunto per questo che esso manipola così di frequente i sentimenti anti-giapponesi a sostegno della propria politica. Come rilevato nel 2010 dal SIPRI, “a volte, attraverso i media, le autorità incoraggiano tacitamente il pubblico a esprimere opinioni su questioni internazionali; altre volte, invece, fanno del proprio meglio per bloccare l’espressione di opinioni relative alla politica estera”.
Per quanto questa tattica possa aver funzionato in passato, essa è oggi destinata a incontrare crescenti difficoltà. Con i social network che iniziano a sfidare la censura governativa, nessun aspetto dell’agenda di governo può più sfuggire al pubblico scrutinio. Manovrare l’opinione pubblica non è più così semplice come un tempo.
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