La Cina ha confermato nelle scorse settimane che per la prima metà del 2011 ridurrà del 35% la quota di esportazione delle terre rare, dopo averla già ridotta del 75% nel 2010. Le terre rare sono diciassette metalli di costosa estrazione, che rappresentano componenti fondamentali di molti prodotti ad alta tecnologia, quali i televisori a schermo piatto, le turbine eoliche, le auto ibride ed elettriche. La domanda globale di questi minerali è in continua crescita: mentre nel 2009 è stata di 134.000 tonnellate, nel 2011 le stime prevedono che raggiunga le 180.000 tonnellate. Poiché l’offerta nel 2009 è stata pari solo a 126.000 tonnellate, i prezzi sono in continua crescita. La produzione è concentrata in Cina, che con il 95% dell’offerta mondiale ne possiede in sostanza il monopolio, grazie alla vasta disponibilità di manodopera e ai bassi standard ambientali (anche se nel novembre 2010 sono stati emanati dei regolamenti che ne proibiscono l’esportazione alle aziende che non rispettano le leggi sull’ambiente). Infatti, l’estrazione e la lavorazione di questi metalli richiedono l’uso di ingenti quantità di acqua e agenti chimici, che producono scorie tossiche e radioattive che, se non adeguatamente trattate, possono contaminare il terreno e le acque sorgive.
Le restrizioni all’esportazione delle terre rare hanno sicuramente una motivazione economica – la domanda interna di terre rare sta aumentando notevolmente, e maggiori quantità di minerali devono rimanere all’interno del paese – ma anche politica: ne sa qualcosa il Giappone, che si è visto immediatamente bloccare la fornitura all’indomani dell’incidente navale dello scorso settembre dinanzi alle isole contese Senkaku/Diaoyu. La Cina potrebbe anche volere condizionare il mercato globale, come fece l’Opec negli anni ’70. La questione è stata discussa anche al G20 di Seoul. Se la contesa non è di facile soluzione sul piano politico, gli Stati possono però cercare di reagire sul piano economico.
Come mostra la tabella sottostante, infatti, gli Stati Uniti e l’Australia possiedono rispettivamente il 13% e il 5% delle riserve mondiali delle terre rare (la Cina ne possiede il 36%), ma la loro produzione è nulla.
L’aumento dei prezzi di queste materie prime ha reso oggi la loro estrazione fattibile (nel rispetto della più rigida normativa ambientale dei Paesi industrializzati) e profittevole. Per la prima volta, il governo americano ha commissionato un rapporto-censimento sui giacimenti negli Stati Uniti: entro il 2013-2014 dovrebbe entrare in funzione la miniera di Mountain Pass in California. Il primo ministro dell’Australia Occidentale Colin Barnett ha addirittura dichiarato che le restrizioni cinesi all’esportazione sono una “bonanza” per lo stato: la nuova situazione ha consentito di completare il progetto minerario dell’impianto di Mount Weld, mentre vengono elaborati altri progetti per la creazione di nuovi siti entro il 2015- 2016. Secondo il vicepresidente della Lynas Corporation, gigante minerario australiano, il mercato delle terre rare fuori dalla Cina è di 60.000 tonnellate, e con le nuove restrizioni in atto, la Cina quest’anno sarà in grado di offrire a questo mercato solo 28-29.000 tonnellate, mentre i nuovi progetti minerari dovrebbero aumentare la produzione al di fuori della Cina a 45.000 tonnellate.
La Cina, quindi sta contribuendo sia direttamente (quale cliente) sia indirettamente al boom australiano. La lobby mineraria in Australia Occidentale è talmente potente che ha contribuito alla caduta, nel 2009, del governo laburista di Kevin Rudd, che proponeva un aumento delle tasse sul settore. Il caso delle terre rare dimostra ancora una volta come alcune decisioni di Pechino producano effetti sull’intero scenario politico-economico globale, costringendo gli altri stati a rivedere le proprie strategie.
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