闻一多, «天安门», 1926. Wen Yiduo, Tian’anmen, 1926.[1]
C’è un filo rosso sangue che collega i principali moti sociali e politici che hanno plasmato la modernità cinese nel XX secolo: la passione civile e politica dei giovani cinesi, il loro ardore nel pretendere ascolto, riconoscimento e, in ultima analisi, radicale cambiamento dai propri governanti. Anche a costo di pagare a caro prezzo il loro ardire, soprattutto in un contesto politico e culturale che storicamente nega da sempre la legittimità del dissenso a chi è povero d’anni e, per conseguenza, di saggezza. Shǎ xuéshēngmen, “sciocchi studenti”, li definisce con un misto di disapprovazione e sgomento l’anziano tiratore di risciò immortalato nella celebre poesia di Wen Yiduo, scritta pochi giorni dopo l’eccidio di dimostranti da parte della polizia davanti a un luogo in cui tali eventi torneranno a ripetersi, molti anni più tardi: la Porta della Pace Celeste, Tian’anmen.[2] Sette anni prima, quando circa tremila di quegli stessi “sciocchi studenti”, allievi di tredici università e istituti superiori di Pechino, con la loro protesta contro l’imperialismo straniero (e in particolare quello giapponese), avevano dato vita al cosiddetto “Movimento del 4 maggio”, la reazione poliziesca era stata meno letale, sfociando in 32 arresti e una sola vittima, deceduta giorni dopo in seguito alle percosse ricevute. Le ripercussioni di questo evento, in fondo circoscritto, giocatosi nello spazio di poche ore in un pomeriggio di maggio, furono straordinarie e innescarono profonde trasformazioni nella politica, nella società e nella cultura della giovane Repubblica di Cina.
Nella storiografia cinese successiva al 1919, tanto in quella nazionalista quanto in quella comunista, i protagonisti di questi eventi saranno oggetto di venerazione, il loro diritto alla ribellione giustificato in nome della nazione o della rivoluzione, talora attingendo anche a nozioni tradizionali di legittimazione della rivolta contro governanti inetti, palesemente indegni del “mandato celeste”. Tuttavia, una rilettura più attenta dei testi confuciani – o in generale dell’intero patrimonio letterario classico in materia politica – stenterebbe a trovare giustificazioni per la rivolta dei più giovani contro il potere dello Stato, anche quando si tratta dei più colti rampolli delle sue élite. La classica figura del confuciano integerrimo, severo censore dello strapotere del proprio sovrano, più spesso finisce per pagare la franchezza dei propri ammonimenti con la vita, magari per vedere poi un giorno riscattata la propria memoria dai posteri, grati e commossi dal suo sacrificio. I passi del Mencio su cui spesso si suole fondare la presunta dottrina del “diritto del popolo a ribellarsi” sono in realtà piuttosto sibillini in merito alla liceità della ribellione[3] e, soprattutto, non attribuiscono mai al popolo il diritto di scegliersi i propri governanti.[4] Secondo Justin Tiwald, il Mencio presenta piuttosto una visione coerente in merito alle condizioni che devono verificarsi affinché la deposizione di un sovrano possa considerarsi legittima, “e tale visione nega sistematicamente al popolo il diritto di ribellarsi”.[5]
La celebrazione a posteriori del fervore e del sacrificio dei giovani manifestanti di allora – quelli del 1919, come pure quelli martirizzati nei numerosi massacri di attivisti, studenti e operai degli anni Venti e Trenta – è ancora oggi dipinta nei colori primari dell’amor di patria e della lotta all’imperialismo britannico, francese e giapponese. Su altri fondamentali aspetti, che pure erano fortemente presenti nella manifestazione del 4 maggio 1919 e in molte di quelle seguenti, si tende invece a sorvolare: la richiesta di un protagonismo attivo da parte dei giovani, l’esigenza, tanto degli studenti quanto dei giovani operai, di farsi attori di un cambiamento politico e culturale concreto. Questa insopprimibile volontà di partecipazione diretta alla politica, di un cambiamento radicale che partisse da un immediato confronto tra governanti e governati, è alla radice dell’impegno di molti protagonisti della vita politica cinese degli anni Venti, a partire dal giovane Mao Zedong. Il Movimento del 4 maggio gli mostrò come una pulsione ideale potesse muovere le persone all’azione, e quanto quest’azione collettiva potesse fare la storia.[6] Come i suoi coetanei riunitisi davanti alla Porta della Pace Celeste nel 1919, anche il giovane Mao era stato ispirato dagli scritti di Chen Duxiu, e in particolare dal famoso appello alla gioventù del 1915, forse il più appassionato inno alla forza trasformativa dell’attivismo giovanile, al suo fondamentale contributo all’emancipazione politica dell’individuo e dunque della società, mai scritto in lingua cinese.[7]
Nel brutale crogiuolo della lotta politica degli ultimi anni Venti, con l’avvio della guerra civile tra nazionalisti e comunisti, i giovani che forgiarono la propria carriera politica nella rivoluzione cinese formarono la prima classe politica cinese moderna, guidandone lo scontro su opposti schieramenti a capo di grandi organizzazioni politiche. Quando finalmente si concluse la lunga guerra contro il Giappone, i leader principali del Partito nazionalista (Guomindang) e del Partito comunista cinese (Pcc) avevano quasi tutti raggiunto o superato la mezza età. Ma quando nel 1949 i comunisti cinesi presero finalmente il potere, città dopo città, a colpire i contemporanei fu soprattutto lo sfilare interminabile dei giovani volti bruciati dal sole dei soldati dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), come racconta un testimone presente all’ingresso delle truppe comuniste a Shanghai:[8] “Eccoli qua, i soldati comunisti – in gran parte adolescenti nel primo fiorire della gioventù, ragazzi smunti, ancora impacciati nell’andatura; altri, campagnoli quasi adulti, che cercano di darsi un tono bilanciandosi prima su un piede, poi sull’altro. Se ne stanno piazzati agli incroci cittadini, le proprie carabine imbracciate con disinvoltura, guardandosi attorno sgranando gli occhi, palesemente sgomenti di fronte ai magnifici palazzi della città”. A Pechino, a Nanchino, a Shanghai, l’arrivo dell’Epl è sempre preparato dall’attivismo degli studenti, come ci raccontano le splendide foto di Henry Cartier Bresson:[9] sono loro a dipingere e distribuire manifesti e volantini, a improvvisare spettacoli di piazza, comizi, sfilate. Truccate come contadine dello Shaanxi, studentesse di città ballano lo yāngge 秧歌 all’unisono con i gruppi teatrali dell’Epl, sfilano con striscioni contro il mercato nero, sono indispensabili alla propaganda del Partito. Il loro ruolo nell’assicurare al Pcc il controllo pacifico delle maggiori città è cruciale.
In generale, il debito che il successo della rivoluzione cinese ha con i giovani soldati, operai, contadini e studenti è immenso. Saranno ancora i giovani delle città e delle campagne a partire volontari per la guerra di Corea, all’indomani della Liberazione. Saranno sempre loro ad aderire, per primi e con maggiore entusiasmo, alle campagne politiche più importanti dell’epoca maoista. E saranno i primi a pagarne il prezzo, un prezzo sempre più alto. I giovani intellettuali che avevano partecipato con entusiasmo alla campagna dei Cento fiori verranno successivamente estirpati come erbacce e deportati nei campi di rieducazione attraverso il lavoro. Allo stesso modo, i giovani studenti che erano stati protagonisti della Rivoluzione culturale negli anni 1966-68 accorrendo a milioni nei ranghi delle Guardie Rosse, vennero disarmati manu militari e inviati “su per le montagne o giù nei villaggi” (shàngshān xiàxiāng, 上山下乡). Furono oltre 12 milioni i “giovani istruiti” inviati a farsi rieducare dai contadini nelle più sperdute aree rurali del paese nei sette anni successivi.[10] E dopo che, nell’estate del 1978, le Guardie Rosse vennero ufficialmente relegate “all’immondezzaio della storia” dai vertici del Partito stesso,[11] furono di nuovo soprattutto i giovani studenti delle riaperte università cittadine a dar vita all’effimera Primavera di Pechino del 1978-79, quando sulle mura di via Xidan apparvero dazibao che chiedevano a gran voce più libertà, più equità, più democrazia. Il cosiddetto Muro della Democrazia di Xidan durò finché fu utile all’affermazione del nuovo leader massimo cinese, Deng Xiaoping: appena l’attivista Wei Jinsheng prese di mira Deng stesso per la sua riluttanza a garantire al popolo cinese la “quinta modernizzazione”, appunto la democrazia, lui ed altri protagonisti di questa intensa stagione politica, come Ren Wanding, vennero arrestati e condannati a pesanti pene detentive.
Dieci anni più tardi, di nuovo davanti alla Porta della Pace Celeste, i giovani studenti cinesi tornarono alla ribalta: contro la corruzione dei funzionari del Partito, la crescente ineguaglianza economica, la mancanza di trasparenza, di tutele a difesa dei diritti civili dei cittadini. Come ricorda Gaia Perini in questo numero, nel 1919 il principale bersaglio delle proteste erano i governanti cinesi, le principali richieste erano di maggiore ascolto, maggiore influenza, maggiore partecipazione alla cosa pubblica. In una parola: maggiore democrazia. Settant’anni più tardi, il sentimento della piazza è lo stesso. L’età anagrafica e l’estrazione sociale prevalente dei leader del Movimento sono le medesime. Come sia andata a finire è noto. Come Crono divora i propri figli, così lo Stato cinese contemporaneo si è nutrito delle menti e delle carni dei propri giovani: dagli intellettuali più generosi ed entusiasti, alle vaste schiere di contadini-operai che hanno costruito le sue città e le sue gigantesche, modernissime infrastrutture. I desideri di cambiamento e di riscatto di milioni di giovani han finito così per alimentare una struttura di potere opaca, anodina, burocratica e gigantesca, che a nessun costo è disposta a cedere il proprio monopolio politico.
Per chi voglia partecipare alla cosa pubblica, nella Repubblica popolare cinese, l’unica soluzione realmente percorribile è entrare nei ranghi del Partito. Al di fuori di esso, i giovani attivisti sopravvivono a fatica, quali che siano le proprie convinzioni politiche: dai nazionalisti più accesi ai giovani marxisti neo-maoisti, la risposta del governo si conferma immancabilmente repressiva. Per tutti gli altri, ci sono le gioie forse effimere ma tangibili dei beni di consumo, la seduzione di uno stile di vita urbano impensabile fino a un paio di generazioni fa. La lezione appresa dal Partito nel 1989, conclamata dalla dissoluzione dell’Urss pochi anni più tardi, si è tradotta in un enorme sforzo di controllo sociale, che comincia dalla scuola e dalla “educazione patriottica” inaugurata a metà degli anni Novanta, per finire nella mappatura digitale di ogni identità, di ogni transazione o comunicazione digitale. Il principale scopo di questo controllo sociale appare quello di plasmare la gioventù in modo da incanalarne le energie nello sforzo di rinnovamento nazionale, allevando cittadini adulti politicamente mansueti, leali sostenitori della nazione. Così il compimento del grande “sogno cinese” di uno stato sovrano, ricco e potente, la realizzazione delle speranze di intere generazioni di patrioti cinesi, non può prescindere dall’implementazione del più tecnologicamente avanzato e capillare apparato di sorveglianza al mondo. Ora, agli occhi di molti abitanti della Cina continentale, l’agitazione di centinaia di migliaia di shǎ xuéshēngmen, di “sciocchi studenti”, ma anche di altrettanti cittadini comuni nell’ex-colonia britannica di Hong Kong, dove con gli scioperi e i boicottaggi degli anni Venti ebbero inizio le maggiori agitazioni anticoloniali del primo Novecento, appare folle e sconsiderata. Forse perché, in oltre due mesi di proteste ininterrotte, i manifestanti sembrano proprio mettere radicalmente in discussione la liceità di questo patto faustiano, che baratta l’anima dei movimenti politici cinesi del Novecento in cambio della “ricchezza e della potenza” (fùqiáng, 富强) della nazione.
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[1] Wen Yiduo, Quanji (“Opera omnia”), 4 voll. (Shanghai: Kaiming Shudian, 1948), 27-28. Traduzione italiana dell’autore.
[2] Sui moti del 18 marzo 1926 si veda Jonathan Spence, The Gate of Heavenly Peace. The Chinese and their revolution, 1895-1980 (Londra: Penguin, 1981).
[3] Specialmente i passaggi 1B6(1-3) e 1B8(1-3), ove quest’ultimo in particolare è addotto come giustificazione dell’assassinio di un sovrano inetto e crudele, poiché tali comportamenti non sono propri di un sovrano: dunque non di regicidio si tratta, poiché a essere messo a morte non è un “sovrano” (jūn, 君), bensì “un individuo” (yīfū, 一夫). Si vedano: Bryan W. Van Norden, Mengzi. With selections from traditional commentaries (Indianapolis e Cambridge: Hackett, 2008), 24, 26.
[4] Si veda in proposito l’analisi di Justin Tiwald, “A right of rebellion in the Mengzi?”, Dao, (2008) 7, 269-282. Si vedano anche: Maurizio Scarpari (a cura di), Mencio e l’arte di governo (Venezia: Marsilio, 2013); Maurizio Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi (Torino: Einaudi, 2010).
[5] Justin Tiwald, “A right of rebellion in the Mengzi?”, Dao, (2008) 7, 270.
[6] Si vedano Orville Schell e John deLury, Wealth and power. China’s long march to the twenty-first century (Londra: Little-Brown, 2013), 207.
[7] Chen Duxiu, “Jĭnggào qīngnián” [Ammonimento ai giovani], Xin Qingnian [Gioventù Nuova], 1 (1915) 1, 3. Una traduzione inglese integrale si trova in: Ssu-yü Teng e John K. Fairbank, China’s response to the West. A documentary survey, 1839-1923 (Cambridge: Harvard University Press, 1954), 240-246.
[8] Mariano Ezpeleta, Red Shadows over Shanghai (Quezon City: Zita, 1972), 185, citato in Frank Dikötter, The tragedy of liberation. A history of the Chinese revolution 1945-57 (London: Bloomsbury, 2013), 30. Traduzione italiana dell’autore.
[9] Henry Cartier Bresson e Jean Paul Sartre, Da una Cina all’altra, trad. it. Raffaella Lotteri (Milano: Artimport, 1954).
[10] Per il periodo 1967-1979, il totale dei giovani istruiti inviati in campagna fu di 16.470.000. Si vedano Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals, Mao’s last revolution (Cambridge: Harvard University Press, 2006), 251.
[11] Ibid.
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