Per aiutare il pubblico occidentale a comprendere il sistema dei media cinesi, i media occidentali usano spesso due espressioni: “organo di Partito” – sovente con riferimento al Quotidiano del popolo e a CCTV, la tv di Stato – e “indipendente”, con riferimento a Caijing, a Caixin nonché al settimanale presso cui lavoro, il Nanfang Zhoumo [sito in cinese]. Tuttavia, l’uso di queste due espressioni – così come la classificazione dei media che esse sottintendono – costituisce un eccesso di semplificazione che può ingenerare incomprensioni anche gravi. Da giornalista che lavora in quello che il New York Times ha definito “il più influente giornale indipendente” cinese, trovo che l’idea che gli occidentali hanno dei media “indipendenti” in Cina sia spesso lontana dalla realtà.
In Occidente i giornalisti “indipendenti” cinesi sono considerati eroici, al limite del donchisciottesco. Sono descritti come combattenti per la libertà di stampa, contro il tiranno rappresentato dal Partito- Stato. Questa lettura si riscontra persino in lavori accademici: articoli scientifici e libri sui media cinesi riportano spesso la parola “controllo”. Sono poi frequenti espressioni quali “monitorare”, “stretta sorveglianza”, “rigida regolamentazione”, e persino “bandire le pubblicazioni ribelli”. Sul fronte opposto di questa immaginaria barricata, media e giornalisti sono spesso presentati come “coraggiosi”, sempre pronti a “spingersi oltre i limiti”. L’interazione tra il Partito-Stato e i media è quindi descritta come un “conflitto”, una situazione di “tensione”, “disaccordo”, “protesta”, “resistenza”, “repressione”. In poche parole, il discorso occidentale sui media cinesi è fatto di battaglie per l’autonomia, combattute dai giornalisti contro lo Stato.
È vero che battaglie per il controllo e l’autonomia vengono combattute ogni giorno, ma va detto che queste interpretazioni eccessivamente incentrate sul tema del “controllo” trascurano molti altri, interessanti aspetti. La ragione principale per cui il modello “controllo-resistenza” non convince è che il sistema è talmente complicato da non poter essere ricompreso in un giudizio così sintetico. Per esempio, l’economia di mercato è oggi uno dei più importanti ingredienti del sistema cinese. Se siamo convinti che i giornalisti siano sempre e comunque contro il sistema, allora saremo anche portati a credere che essi si oppongano all’economia di mercato che questo persegue. La verità, però, è che la maggior parte dei media cinesi sono decisi sostenitori dell’economia di mercato. Dati del “Pew Research Center” rivelano che – nell’ultimo decennio – circa il 75 per cento dei cinesi ha convintamente sostenuto il libero mercato, una percentuale superiore a quella di qualunque altro paese oggetto di rilevazione. Senza dubbio, i media giocano un ruolo nel plasmare questo orientamento dell’opinione pubblica. Naturalmente molti giornalisti cinesi sono contro determinati aspetti del sistema economico – come per esempio il fenomeno guojin mintui (国进民退), “lo Stato che avanza mentre il settore privato si ritira”. Ma è sbagliato dire che i giornalisti siano contro il sistema nel suo complesso.
Spesso, inoltre, si trascurano i legami tra alcuni media “indipendenti” e “coraggiosi” e funzionari altolocati, con cui i primi intrattengono rapporti ben più strutturati di quanto molti potrebbero immaginare. Numerosi funzionari di alto grado sono affezionati lettori di questi media “fuori dal coro”, alcuni di loro vi contribuiscono o addirittura ne stimolano l’orientamento. Una volta mi è capitato di scrivere su una conferenza in cui era stato toccato il tema della riforma politica. Quella conferenza era stata organizzata da Hu Deping, noto “funzionario riformista” in buoni rapporti con alcuni media “indipendenti”: era stato appunto Hu a invitare giornalisti di questi media per coprire la conferenza e rendere pubbliche le posizioni degli studiosi che vi avevano partecipato. È evidente che il modello semplicistico “controllo-resistenza” non tiene alla prova dei fatti. È fondamentale riconoscere che i media cinesi e il Partito-Stato non sono nemici. Nei fatti, media e giornalisti partecipano al processo di riforma, giocando un ruolo tutt’altro che irrilevante. Considerare i media come oppressi o ribelli ha senso entro certi limiti, ma vuol dire sottovalutarne il potere, il desiderio di intrattenere rapporti con lo Stato, se non addirittura di contribuire attivamente al sistema (come anche alla sua trasformazione).
Un quadro più fedele dei media cinesi lo si ricava dall’analisi dello sviluppo dei media commerciali dai primi anni Ottanta, o dall’analisi della struttura di proprietà dei gruppi dell’informazione. Di fatto, persino i media più “indipendenti” non sono veri e propri outsider. Certamente, essi sono orientati al mercato e differiscono dagli organi di partito sia nei contenuti che nelle forme gestionali, poiché non ottengono finanziamenti pubblici e devono quindi raccogliere fondi dagli inserzionisti. Tuttavia, questi media sono pur sempre collegati al sistema politico: non esistono media realmente privati in Cina. Ogni quotidiano commerciale appartiene a un quotidiano di partito; ogni rivista è alle dipendenze di un dipartimento governativo. Buona parte degli editori – tanto negli “organi di partito” quanto nei media “indipendenti” – sono funzionari di partito o di governo, di svariato rango. Per esempio, il rango dell’editore capo del Quotidiano del popolo equivale al rango del governatore di una provincia; il rango dell’editore capo del Nanfang Zhoumo equivale al rango di un presidente di contea.
È facile capire come questo sistema dia certe libertà ai media commerciali e abbia nei fatti consentito l’emergere di media agguerriti. Ma non va dimenticato che questi media – e i giornalisti che vi lavorano – non agiscono al di fuori del sistema.
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