Al momento della stesura di questo articolo, il Beijing Air Quality Index mostra un incoraggiante 29, accompagnato da uno sfondo verde brillante sul quale campeggia la parola “good”. È così che si presenta l’inizio dell’autunno nella capitale cinese, quando a Pechino si può ancora respirare e osservare il calar del sole sulla Città proibita.
I residenti sanno però che non devono farsi illusioni: dall’inizio dell’inverno 2011, l’inquinamento atmosferico di Pechino è diventato oggetto di attenzione internazionale, dopo che l’ambasciata americana ha reso noti dati sull’inquinamento della città ben più preoccupanti dei numeri ufficiali pubblicati dall’Agenzia di protezione ambientale di Pechino.
La differenza tra i due sistemi di misurazione risiedeva nella formula per il calcolo della concentrazione di polveri fini (PM 2,5). La versione cinese, benché utilizzasse la stessa funzione per determinare il livello d’inquinamento dell’aria (basata su di un calcolo delle concentrazioni di diverse sostanze inquinanti), prendeva in considerazione un range diverso nella valutazione della concentrazione di PM 2,5. In altri termini le densità di concentrazione di queste micro-particelle dannose per la salute umana erano edulcorate. La giustificazione addotta è che la Cina si trova a un livello d’industrializzazione meno avanzato degli Stati Uniti.
Il governo municipale si è trovato a dover rispondere alle richieste di maggior trasparenza, iniziando quindi a diffondere dati più corretti. L’ Air Quality Index (Aqi) è così diventato di dominio pubblico, anche attraverso le applicazioni per smartphone e i monitor dei vagoni delle metropolitane. Tuttavia, la maggiore trasparenza non è stata accompagnata da un miglioramento della qualità dell’aria.
Al contrario, i nuovi numeri mostrano un progressivo peggioramento dell’inquinamento di Pechino, che ha raggiunto, a gennaio 2013, l’inquietante concentrazione di PM 2,5 di 886 microgrammi per metro cubo, circa 35 volte superiore al livello ritenuto pericoloso per la salute umana dall’Organizzazione mondiale della sanità. In quei giorni, con un misto di macabro umorismo, la stampa cinese aveva soprannominato il fenomeno “air-pocalypse” (kongqi mori, 空气末日).
Non si tratta di un’esagerazione: per tutto il mese di gennaio 2013, l’Aqi mostrava livelli superiori a 700 (tenendo conto che il grado massimo della scala è 500), spingendo molti residenti a evitare di lasciare le proprie abitazioni. Le maggiori responsabili dell’inquinamento di Pechino (ma anche della più ampia area Tianjin-Hebei-Shandong, del Jiangsu, di Shanghai, del Nord-est e delle province dello Shaanxi e Shanxi) sono le centrali a carbone, che rispondono a una domanda energetica in costante crescita, spinta dai bisogni dell’industria e dall’urbanizzazione galoppante.
Il governo cinese a questo proposito ha deciso di investire in questi cinque anni 275 miliardi di dollari Usa per “ripulire l’aria”, attraverso misure di riduzione dell’inquinamento che passano obbligatoriamente dalla chiusura di stabilimenti industriali particolarmente inquinanti, ma anche attraverso la scelta di fonti energetiche più pulite, soprattutto il gas naturale.
Altre misure per contenere l’inquinamento atmosferico sono la limitazione del traffico e dell’acquisto di automobili. Tuttavia, l’automobile è diventata ormai un vero status symbol del successo economico, la cui diffusione presso le famiglie cinesi più abbienti appare difficilmente controllabile.
La Cina si propone di portare il consumo di gas all’8,3% entro il 2015 (il peso del gas nel mix energetico della Repubblica popolare cinese rimane per ora intorno al 4%), ma il gap tra la domanda e la produzione di questa risorsa mette la Cina di fronte alla prospettiva di dover aumentare la propria dipendenza per l’approvvigionamento da paesi come Turkmenistan, Qatar e Russia (ma non solo). Per un paese che già importa il 60% del petrolio consumato, la scelta deve essere ben ponderata.
Per quanto riguarda le rinnovabili, un sistema di produzione e distribuzione energetica ancora troppo a favore dei produttori di carbone (sostenuto in particolar modo dalle politiche delle province carbonifere, in contraddizione con le richieste di Pechino), fa sì che l’energia prodotta da queste fonti non sia ancora competitiva, nonostante l’adozione di strumenti come le tariffe incentivanti (feed-in tariff) e la maggiore importanza segnalata dai documenti di pianificazione economica.
Certamente il livello d’industrializzazione meno avanzato della Cina fa sì che la protezione ambientale rimanga un obiettivo secondario rispetto al bisogno immediato di garantire crescita economica e posti di lavoro. D’altra parte, mentre prosegue il dibattito sul “sogno cinese” lanciato dall’attuale dirigenza nazionale e crescono le disponibilità economiche delle famiglie cinesi, è auspicabile che alla dimensione dello sviluppo si accompagni sempre più quella della sostenibilità umana e ambientale.
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