Dalla transizione politica del 2011, l’interesse della comunità accademica per il Myanmar è cresciuto. Sebbene l’attenzione sia stata volta principalmente al tema della democratizzazione e del cambiamento politico a livello statale, molti studiosi che da tempo seguono il Paese hanno sottolineato la crucialità di una soluzione del conflitto etnico nelle aree periferiche[1].
Contrariamente alle aspettative, con l’ascesa al potere di Aung San Suu Kyi il conflitto etnico non è terminato, al contrario, si è inasprito e l’esercito ha continuato a colpire indiscriminatamente i civili delle minoranze etniche nel corso di operazioni di controinsurrezione. Mentre l’attenzione mediatica si è concentrata soprattutto sull’emergenza dei musulmani Rohingya nello stato Rakhine, altre minoranze etniche hanno subito abusi simili e dal 2011 centinaia di migliaia di persone sono state sfollate a causa delle offensive dell’esercito contro le posizioni ribelli nel nord del Paese. Contemporaneamente, i gruppi etnici ribelli si sono nuovamente mobilitati su larga scala, come nel caso della Kachin Independence Organisation (KIO) che ha mostrato un rinnovato spirito rivoluzionario, forza militare e disciplina organizzativa. Inoltre, questi movimenti godono di un vasto sostegno popolare, formano alleanze complesse e sono in grado di sfidare l’esercito. Osservando con attenzione gli sviluppi del processo di pace emerge che l’unico gruppo ribelle di una certa dimensione ad aver firmato l’accordo nazionale di cessate il fuoco (Nationwide Ceasefire Agreement, NCA) del 2015 è stata la Karen National Union (KNU). Gran parte degli altri firmatari sono milizie collegate all’esercito o soggetti privi di capacità militare. In altre parole, i gruppi ribelli più potenti continuano a combattere, nonostante molti di loro (KIO inclusa) in passato avessero avuto duraturi accordi di cessate il fuoco con il Tatmadaw (le Forze Armate). Nel mio libro di recente pubblicazione intitolato Rebel Politics: A Political Sociology of Armed Struggle in Myanmar’s Borderlands analizzo queste complesse dinamiche che qui sintetizzo evidenziando i risultati empirici e le implicazioni di policy[2].
Dentro i gruppi ribelli
Rebel Politics si basa su una lunga ricerca sul campo e spiega la rottura del cessate il fuoco da parte dei Kachin in un momento in cui altri gruppi ribelli, come i Karen, accettavano di negoziare, evidenziando il ruolo delle relazioni interne ai due gruppi. Questo dato produce un correttivo importante all’interpretazione classica secondo cui le strategie dei gruppi etnici derivano principalmente dall’ambiente esterno, ovvero la transizione politica e l’evoluzione dell’economia di confine. Gli analisti e i media hanno, infatti, comunemente evidenziato la liberalizzazione politica per spiegare la firma dell’accordo di cessate il fuoco da parte della KNU nel 2012 e la successiva spinta verso un processo di pace[3]. Secondo tale lettura i leader Karen avrebbero colto l’opportunità offerta dalla transizione politica, che ha permesso loro di negoziare una soluzione pacifica a sei decenni di guerriglia. Ma questa narrazione di una tendenza verso pace e democrazia è smentita dalla concomitante esplosione del conflitto con gruppi precedentemente parte dell’accordo al confine con la Cina, KIO inclusa.
Osservando più da vicino la politica di questa lotta armata si sono potuti isolare due fattori principali che aiutano a spiegare le dinamiche appena descritte. Il primo consiste nella lotta intestina tra fazioni ribelli, che ha influito sulle strategie, sia dei Karen sia dei Kachin, nei negoziati con lo stato. Il secondo fattore ha a che fare con le sfide poste dal cessate il fuoco, che hanno già portato alla rottura dell’accordo da parte dei Kachin e mettono a rischio anche quello con i Karen, dal momento che si tratta di sfide simili. Infatti, in entrambi i casi sono presenti misure di cooptazione parziale dei leader ribelli, che hanno aggravato i conflitti interni preesistenti e provocato frammentazione, portando una fazione a cercare un’alleanza con il governo promuovendo politiche di cessate il fuoco, mentre altre fazioni mobilitavano la loro base dal basso contro tale collaborazione.
Per comprendere la lotta interna per la legittimità in entrambi i movimenti bisogna ricordare che la pluridecennale guerra civile ha inevitabilmente penetrato le pratiche quotidiane di molti gruppi etnici nelle irrequiete periferie del Myanmar. In questo ambiente, di conseguenza, le insurrezioni non coinvolgono solo guerriglieri armati, ma anche movimenti studenteschi, attivisti per la giustizia sociale, autorità religiose e singoli individui che supportano la causa. L’autorità dei leader ribelli appare dunque meno dipendente dai servizi che essi riescono a garantire[4], quanto dalla capacità di generare identità sociali positive. Ciò accade quando il gruppo ribelle è associato a principi morali, come la protezione di una comunità e la lotta contro strutture statali inique. Sentirsi riconosciuti come un membro stimato di un gruppo ribelle può quindi provocare orgoglio e autostima, e a sua volta generare legittimità per il gruppo stesso, garantendo stabilità all’autorità dei leader. Se invece l’identificazione sociale positiva con il gruppo è minacciata, lo stesso accadrà all’autorità dei leader che probabilmente verrà sfidata dal basso.
In Myanmar, la politica del cessate il fuoco e del negoziato di pace ha creato una frattura nelle relazioni tra élite e base all’interno dei gruppi ribelli, principalmente perché l’azione di peace-making ha avuto un approccio economico, garantendo vantaggi alle élite da entrambi i lati, ma non riuscendo a rispondere ai bisogni delle popolazioni ribelli. In particolare, l’autorità dei leader Karen e Kachin che avevano assunto un approccio di collaborazione è stata minata da politiche di cessate il fuoco estrattive e militari che hanno perpetuato insicurezza e povertà nonostante la fine del conflitto, facendo venire meno la fiducia non solo delle comunità ma anche dei soldati. Assistere alla collusione di alcuni leader nella gestione del ricco bottino delle cosiddette “ceasefire industries”[5] ha acuito il senso di alienazione di questi ultimi.
Implicazioni per la pace in Myanmar e oltre
I risultati della mia ricerca hanno due implicazioni principali per gestire le relazioni con i movimenti ribelli, non solo in Myanmar. In primis, approcci controinsurrezionali che mirano a frammentare i gruppi ribelli ed eroderne l’autorità possono indebolire la ribellione, ma probabilmente si riveleranno controproducenti nella ricerca di soluzioni pacifiche a una guerra civile, e possono creare nuova violenza. In secondo luogo, lo sviluppo economico non garantisce la fine di una guerra civile: mentre un approccio economicistico verso controinsurrezione, risoluzione del conflitto e peace-building, può stabilizzare temporaneamente un conflitto armato, è invece inadeguato ad affrontare la radice delle cause della violenza politica, e può esacerbare rivendicazioni preesistenti se non è accompagnato da concessioni politiche.
Frammentazione e violenza
La mia ricerca ha evidenziato che gli approcci basati sulla frammentazione dei gruppi ribelli non sono adatti a raggiungere soluzioni durature a una guerra civile, al contrario stabilità delle organizzazioni e autorità della leadership all’interno dei gruppi ribelli sono fondamentali per trasformare organizzazioni violente in non violente. Gli stati e gli stakeholder internazionali coinvolti nei processi di pace, dunque, devono fare attenzione a non intaccare l’autorità della controparte. Ciò significa che l’inclusività durante un negoziato di pace non può limitarsi a invitare al tavolo rappresentanti di tutte le parti del conflitto, ma al fine di prevenire reazioni negative da parte degli attori esclusi, mediatori e interlocutori devono assicurarsi di coinvolgere le fazioni interne ai gruppi armati per assicurarsi che i loro leader possano ottenere il supporto necessario a una risoluzione pacifica all’interno del proprio movimento. Tale approccio si contrappone alle pratiche convenzionali di controinsurrezione, normalmente volte a rompere la struttura organizzativa dei gruppi ribelli tramite l’assassinio di figure chiave e scollegare la rivolta dal sostegno locale negando l’accesso alle comunità locali[6]. Ma se questo approccio può indebolire i gruppi ribelli sotto il profilo militare, non facilita la fine del conflitto e probabilmente scatena nuova violenza, in quanto la frammentazione produce dinamiche distorsive che invece di ridurre, prolungano le guerre civili. La guerra civile in Siria ne è un esempio: parte della difficoltà nell’interpretarla deriva dalla moltitudine di attori presenti in un panorama estremamente frammentato in cui i gruppi ribelli sono proliferati come conseguenza di scissioni all’interno delle organizzazioni. Una tale molteplicità di fazioni complica i negoziati di pace accrescendo la probabilità di dinamiche distorsive in cui i sostenitori della linea dura utilizzano la violenza per sabotare la discussione tra le fazioni moderate[7].
La mia analisi delle rivolte Karen e Kachin in Myanmar mostra come la frammentazione interna ai gruppi ribelli esasperi tali dinamiche e come soluzioni apparentemente stabili dall’esterno possono essere fortemente contestate all’interno di un gruppo frammentato. Ciò si verifica perché i leader di siffatti gruppi rappresentano esclusivamente una parte di essi e quindi, nonostante possano avviare negoziati di pace con lo Stato, la loro capacità di attuare le decisioni raggiunte è compromessa dalla presenza di resistenze alla loro autorità con leader rivali e da una scarsa autorità anche all’interno della propria fazione. Inoltre, assumere una posizione accomodante nei confronti dello Stato può diminuire ancora di più l’autorità dei leader moderati e provocare tensioni tra fazioni con elementi meno accomodanti appartenenti allo stesso gruppo. La frammentazione dei gruppi ribelli non solo complica i negoziati di pace, ma può anche far naufragare accordi già firmati. Nel caso del Myanmar, i negoziatori devono dunque espandere il dialogo e includere tutti i gruppi etnici armati, compresi quelli esclusi dall’NCA come l’Esercito di Liberazione Nazionale Ta’ang e quelli, come la KIO, che non hanno firmato l’accordo del 2015. Devono altresì assicurarsi la partecipazione di fazioni interne ai gruppi che stanno già negoziando ufficialmente, come l’opposizione interna alla KNU.
Oltre un’interpretazione economicistica della pace
La seconda implicazione della mia ricerca è collegata alla prima: stabilità delle organizzazioni e autorità della leadership sono cruciali per assicurare la stabilità degli accordi di pace. Di conseguenza, i tentativi di convincere i capi ribelli a interrompere le ostilità con incentivi economici possono essere controproducenti nel lungo termine dal momento che rischiano di produrre frammentazione all’interno delle organizzazioni ribelli e indebolire l’autorità dei leader moderati coinvolti nel negoziato.
Le pratiche contemporanee di controinsurrezione, risoluzione dei conflitti e peace-building, sono tuttavia spesso basate su assunti eccessivamente economicistici, anche perché accademici e policymakers hanno vieppiù visto il dato economico come fattore principale delle guerre civili contemporanee, anteponendolo a ideologie e rivendicazioni politiche[8]. Tale assunto ha favorito la concezione secondo cui i capi ribelli possono essere cooptati attraverso opportunità economiche e comunità marginalizzate blandite con i frutti dello sviluppo economico. I generali birmani hanno basato la loro politica di cessate il fuoco su collaborazioni economiche con i leader ribelli e sullo sviluppo delle aree di confine opportunamente messe in sicurezza. In modo simile, il governo dello Sri Lanka aveva tentato di cooptare i leader delle “Tigri Tamil” e di ottenere l’appoggio delle comunità locali Tamil durante il fallito processo di pace nella prima metà degli anni Duemila, prevedendo erroneamente che i vantaggi dello sviluppo economico non avrebbero solo corrotto la leadership, ma scalfito anche il desiderio di uno stato autonomo tra la popolazione Tamil[9].
La storia recente dei movimenti Karen e Kachin mostra la fallacia di questa visione. Infatti, mentre alcuni economisti politici hanno concluso che in Myanmar gli incentivi economici abbiano facilitato il compromesso tra le parti in conflitto[10], i risultati della mia ricerca mostrano come questi ultimi abbiano contribuito a complicarlo. Ciò deriva dal fatto che la cooptazione di leader ribelli con incentivi economici tende a indebolirne l’autorità e ad alienar loro la fiducia della base, con probabile frammentazione delle organizzazioni e nuova violenza. Lo sviluppo economico, inoltre, non può non tener conto delle rivendicazioni politiche basate sulla marginalizzazione politica e su nazionalismi in competizione fra loro: se tali istanze non vengono prese in considerazione un approccio economicistico verso i gruppi armati probabilmente causerà nuova violenza, come evidenziato dal caso della KIO.
Per porre termine al ciclo di violenza, il governo del Myanmar deve rafforzare gli elementi moderati all’interno dei gruppi etnici armati, creando fiducia tra le minoranze etniche all’interno di un processo di pace genuino. Deve cioè evitare un approccio eccessivamente economicistico e focalizzarsi sulla soluzione politica del conflitto, prendendo in considerazione la possibilità di emendare la costituzione in senso federale e rispondendo alle richieste di riconoscimento dei diritti e dell’identità delle minoranze, elementi che a lungo sono stati la causa principale del nazionalismo etnico e della lotta armata contro uno stato autoritario ed etnocratico. Detto ciò, non va trascurata la rilevanza dei fattori economici, dato che il conflitto origina tanto dalla marginalizzazione economica quanto da quella etnica. Tuttavia, lo Stato, anziché mantenere un’agenda economica ed estrattiva che arricchisce l’élite, deve orientarsi verso uno sviluppo economico inclusivo e istituzionalizzare una distribuzione della ricchezza che contribuisca a superare le rivendicazioni concrete delle comunità locali.
Traduzione a cura di Gabriele Giovannini
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[1] Jones L. (2014a), “Explaining Myanmar’s Regime Transition: The Periphery Is Central”, Democratization, 21 (5), pp. 780-802; Sadan M., (ed), (2016b), War and Peace in the Borderlands of Myanmar: The Kachin Ceasefire 1994-2011, Copenhagen: NIAS Press.
[2] Brenner D. (2019), Rebel Politics: A Political Sociology of Armed Struggle in Myanmar’s Borderlands, Ithaca; NY: Cornell University Press.
[3] Cfr. International Crisis Group (2011), “Myanmar: A New Peace Initiative”, disponibile online al sito http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/asia/south-east-asia/burma-myanmar/214%20Myanmar%20-%20A%20New%20Peace%20Initiative.pdf; Mydans S., “Burmese Government and Ethnic Rebel Group Sign Cease-Fire” The New York Times, 2 dicembre 2012.
[4] Interpretazione di solito presente nella letteratura sulla governance all’interno di gruppi ribelli, si veda ad esempio: Arjona A., Nelson Kasfir, and Zachariah Mampilly (2015), Rebel Governance in Civil War, Cambridge: Cambridge University Press.
[5] Si tratta delle attività economiche nate grazie al cessate il fuoco. Per un’approfondita disamina sul cosiddetto “ceasefire capitalism” e sui processi di state-military building in Myanmar nelle zone multietniche al confine tra il Myanmar nord-occidentale e la Cina sud-occidentale (in particolare, la provincia dello Yunnan, cfr. Woods K. (2011), “Ceasefire Capitalism: Military–private Partnerships, Resource Concessions and Military–state Building in the Burma-China borderlands, The Journal of Peasant Studies, 38 (4), pp. 747-770 [NdR].
[6] Staniland P. (2014), Networks of Rebellion: Explaining Insurgent Cohesion and Collapse, Ithaca; NY: Cornell University Press.
[7] “Syria’s Rebels: Between Talks and a Hard Place”, The National Interest, 11 agosto 2013.
[8] Collier P. e Anke Hoeffler (1998), “On Economic Causes of Civil War”, Oxford Economic Papers, 50 (4), pp. 563-573; Kaldor M. (1999), New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Cambridge: Polity Press.
[9] Goodhand J. (2013), “Stabilising a Victor’s Peace” in Muggah R. (ed.), Stabilization Operations, Security and Development: States of Fragility, Abingdon: Routledge, pp. 215-243.
[10] Sherman J. (2003), “Burma: Lessons from the Ceasefires” in Ballentine K. e Jake Sherman (eds), The Political Economy of Armed Conflict: Beyond Greed and Grievance, London: Boulder Co. Lynne Rienner Publishers, pp. 225-255; Snyder R. (2006), “Does Lootable Wealth Breed Disorder? A Political Economy of Extraction Framework”, Comparative Political Studies, 39 (8), pp. 943-968.
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