Sono passati cinque anni da quando nel 2007 il primo ministro uscente Wen Jiabao – in uno dei suoi discorsi più citati – dichiarò l’economia cinese “instabile, sbilanciata, scoordinata e insostenibile”. Non molto è cambiato da allora, e se possibile la crisi finanziaria globale ha peggiorato la situazione, perché ha ridotto la capacità di acquisto dei mercati europeo e statunitense, principali importatori dei prodotti cinesi. Perciò, dopo il XVIII Congresso assisteremo probabilmente alla continuazione di molte politiche economiche avviate dalla leadership uscente (e incastonate nel XII piano quinquennale 2011-2015), mentre sarà molto difficile per Xi Jinping e Li Keqiang affrontare direttamente i seri problemi che affliggono l’economia cinese senza modificare la struttura clientelare che rappresenta il fondamento del guanxi capitalism che si è realizzato in Cina.
Il periodo di Hu Jintao e Wen Jiabao (2002-2012) sarà ricordato per il tentativo della dirigenza cinese di porre rimedio alle inefficienze strutturali e alle disuguaglianze create dal rapido sviluppo degli anni ’90 del secolo scorso. Furono Hu e Wen, tra il 2004 e il 2006, a introdurre nel dibattito politico i concetti di “società armoniosa” e “sviluppo scientifico”, sottolineando quindi la necessità di trasformare la crescita quantitativa (in inglese descritta come GDPism) in aumento del benessere della popolazione, a cominciare dalla creazione di uno stato sociale a vocazione universale e dalla lotta contro l’inquinamento ambientale. Il XVIII Congresso ha quindi, come era lecito attendersi, emendato la costituzione del partito per inserire lo “sviluppo scientifico” – presentato come l’eredità intellettuale di Hu – tra i principi fondamentali del Partito comunista cinese, accanto al marxismoleninismo, al pensiero di Mao Zedong, alla teoria di Deng Xiaoping, e all’“importante pensiero delle tre rappresentanze” di Jiang Zemin. Se guardiamo però ai risultati delle politiche adottate dalla leadership uscente, il bilancio è abbastanza scarso. La rapida urbanizzazione, i flussi degli investimenti interni ed esteri, e il rafforzamento delle imprese di stato hanno arricchito una nuova classe media (o, come preferisce il partito, un “gruppo a medio reddito”, perché la lotta di classe si ritiene finita con la Rivoluzione culturale) a scapito degli strati più poveri della popolazione. Così, le disuguaglianze, invece di diminuire, sono aumentate: mentre il coefficiente di Gini era 0,41 nel 2000, oggi viene ufficialmente accreditato a 0,47 e, secondo ricercatori cinesi, si attesterebbe su un record di 0,61. In pochi anni, la percentuale di abitanti delle città rispetto ai residenti rurali è passata dal 20% al 51%, dando vita al più ampio e rapido processo di urbanizzazione di massa della storia umana. Il rapporto tra investimenti e Pil ha superato il 50%, un livello più alto di quello del Giappone nei suoi anni d’oro. Il consumo interno, malgrado la consapevolezza del governo della necessità di incentivare i consumi per ridurre la dipendenza dalle esportazioni, è sceso dal 46 al 36%. Forse i risultati più importanti del governo uscente sono da registrare nel welfare state. Per esempio, oggi la quasi totalità della popolazione ha accesso a una forma, per quanto primitiva, di assistenza sanitaria, e sono state abolite le tasse scolastiche per i ragazzi dai sei ai quindici anni (anche se le scuole trovano spesso il modo di recuperare fondi dalle famiglie ad altro titolo).
Le criticità economiche della Cina sono nove, o meglio 7+2, perché le ultime due sono le più cruciali: la povertà, la fine del dividendo demografico, la trappola dei paesi a medio reddito, il debito pubblico, la riforma del sistema valutario, l’aumento dei consumi interni, e la riforma del meccanismo di registrazione della residenza (hukou). Un terzo della popolazione vive ancora con meno di 2 dollari al giorno. La Cina sta diventando vecchia prima di diventare ricca, e aleggia la fine del surplus di manodopera a basso costo (la c.d. fase di Lewis dello sviluppo economico). La Rpc potrebbe seguire un percorso analogo a quello di molti Paesi poveri, che dopo avere raggiunto un livello di medio reddito incorrono in un lungo periodo di stagnazione. Il debito pubblico complessivo, considerando anche quello dei governi locali e i prestiti inesigibili, è stimato al 77% del Pil. La nuova leadership dovrà decidere quando e come liberalizzare il sistema finanziario, adottando la piena convertibilità del renminbi. Infine il problema dei lavoratori migranti, che non hanno legittimo accesso ai servizi sociali, potrà risolversi solo con la piena attuazione della riforma dell’hukou, approvata formalmente negli scorsi mesi.
Ma sono soprattutto la crescente disuguaglianza sociale e la corruzione dei quadri del partito (quest’ultima non a caso citata ampiamente nei discorsi congressuali sia di Hu sia del nuovo segretario) a preoccupare la dirigenza. Quando in una società non democratica il divario tra ricchi e poveri è così ampio, l’invidia sociale e la frustrazione nutrono il terreno di coltura di proteste e rivolte sociali che mettono a rischio la tenuta del regime, come successe in America Latina negli anni ’80. Affrontare seriamente il problema delle disuguaglianze e il cancro della corruzione significa tuttavia procedere a una profonda revisione del meccanismo clientelare leninista che è incardinato nell’architettura istituzionale del Partito-Stato. Questo meccanismo, che – infuso con incentivi di mercato – è servito alla Cina per uscire dal sottosviluppo, ha ora creato potenti lobby (funzionari di alto rango, imprese di stato, governi locali…) che hanno forti interessi da difendere nello status quo. Ecco il vero dilemma del regime: mentre in assenza di riforme il partito rischia di perdere la propria legittimità, riforme economiche radicali potrebbero minacciare l’esistenza stessa del partito. All’interno della dirigenza, qualcuno potrebbe ricordare che quando la corte dei Qing iniziò alcune riforme all’inizio del XX secolo, il tempo era ormai scaduto, e i tentativi riformisti non impedirono il crollo dell’impero.
Resta quindi da chiedersi se il compromesso tra le diverse fazioni del partito – visibile nella stessa composizione del Comitato permanente del Politburo – sarà all’altezza di queste sfide epocali, che vedono la Cina in misura crescente al centro dell’ordine globale e che perciò vanno considerate ancora più seriamente. Tra i sette membri del comitato, cinque sono accreditati come fedeli a Jiang Zemin, l’uomo che aprì la Cina al commercio mondiale ma che iniziò al contempo la strategia di creazione dei grandi conglomerati di stato. Wang Qishan e Zhang Gaoli (due membri di questo gruppo) sono accreditati tra i riformisti, ma nella gerarchia del Comitato ricoprono la sesta e la settima posizione e non avranno incarichi di rilievo in politica economica. Al contrario, Zhang Dejiang, numero tre del regime, è un economista che ha studiato in Corea del Nord – non certo un fulgido esempio di efficiente economia di mercato. Inoltre, diversamente da quanto vogliono fare credere i media occidentali, la stessa distinzione all’interno del partito tra presunti “conservatori” e “riformisti” è sfumata e in ogni curriculum dei quadri di alto rango ci sono azioni ascrivibili all’uno o all’altro campo: lo stesso Zhang Gaoli, quando era capo del partito a Tianjin, seguì nella città il modello di crescita basato sui grandi investimenti immobiliari che ora il governo dichiara di dovere abbandonare.
Tutti questi problemi sono noti al partito, e sono debitamente illustrati nei documenti ufficiali del congresso. Le soluzioni sono pure formalmente e ufficialmente condivise dalla dirigenza, sebbene formulate con l’usuale lessico: rafforzare la supervisione (interpersonale, dei media e del pubblico) sui quadri per impedire attività economiche illegali; combattere il burocratismo e il formalismo all’interno del partito per evitare il distacco dell’attività dei quadri dalle esigenze e necessità reali dei cittadini; promuovere un’attività di governo che risolva i problemi di immediato interesse per la popolazione, a cominciare dalla realizzazione di un servizio sanitario a copertura universale; sostenere l’espansione del gruppo sociale a medio reddito (sic). Quello che il partito non dice è che forse la questione fondamentale non risiede nei desideri e nei bisogni nella classe media, ma in un sistema che ha creato un mondo di ricchi super-privilegiati. A leggere le notizie degli ultimi mesi riguardanti le enormi ricchezze accumulate dalle stesse famiglie di Wen Jiabao e Xi Jinping, vi è da chiedersi se il partito abbia interpretato male la famosa frase “bisogna che qualcuno si arricchisca per primo”, attribuita a Deng Xiaoping, e abbia invece “lasciato che i primi si arricchissero”. E siccome in un mondo globalizzato la lealtà e le finanze dei milionari non sono inamovibili, riconsiderare il rapporto tra potere e ricchezza all’interno della Rpc dovrebbe essere per la nuova leadership il primo nodo da affrontare.
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