Benché vi sia traccia di rapporti della Cina dei Ming con il Messico e il Perù, e la dinastia Qing, alla fine del XIX secolo, avesse allacciato rapporti diplomatici con questi due stati e con Brasile, Cuba e Panama, l’America latina, per ragioni geografiche, storiche e culturali non ha mai rappresentato una priorità per la politica estera cinese. È solo dagli anni ’90 del ventesimo secolo che Pechino ha dedicato più attenzione alla regione. Il decennio appena trascorso ha registrato l’esplosione degli investimenti esteri cinesi anche in questo continente. Il primo policy paper sull’America latina e i Caraibi del governo della Repubblica popolare cinese (Rpc), che risale solo al 2008, ha inaugurato una strategia diplomatica ricca di scambi bilaterali in campo politico, militare, economico e culturale.
È innegabile che l’interesse cinese verso l’America latina sia soprattutto di natura economico-commerciale. Il volume degli scambi con i partner con la regione, che era di soli 2,8 miliardi di dollari Usa nel 1988, nel 2005 era già di 50 miliardi, e nel 2010 ammontava a 180 miliardi. Pechino ha accordi di libero scambio con Cile, Perù e Costa Rica. Nel corso di una visita del vice-presidente Xi Jinping in Cile, a Cuba e in Uruguay, nel giugno scorso, il leader cinese ha sottolineato la volontà del proprio governo di incrementare i flussi commerciali e di investimento in tutta l’area. Dapprima alla ricerca di materie prime quali la soia, il cotone, il petrolio, il materiale ferroso e il rame (ad esempio, il colosso di stato cileno Codelco e China Minmetals hanno siglato a Santiago un accordo strategico alla presenza di Xi Jinping), il mondo imprenditoriale cinese è partito ora anche alla conquista di questi nuovi mercati. Anche se gli Stati Uniti rimangono in testa alla classifica dei paesi che più commerciano con l’America latina, si stima che nel 2015 la Cina supererà l’Unione Europea, ora al secondo posto. La Cina è peraltro già il primo partner commerciale di Brasile e Cile. Se i Paesi dell’area continueranno a crescere ai ritmi attuali (grazie anche al boom dei prezzi delle materie prime innescato dalla domanda cinese), i loro mercati costituiranno un tassello sempre più importante della strategia di diversificazione delle esportazioni cinesi. Una nuova recessione in Europa potrebbe ulteriormente accentuare questa tendenza.
La Cina è anche il terzo investitore nel continente dopo Stati Uniti e Olanda: nel 2010, gli investimenti delle multinazionali cinesi hanno raggiunto la cifra-record di 15 miliardi di dollari, il 90% dei quali nell’industria estrattiva. Come si vede dalla tabella sottostante, i principali paesi destinatari sono il Brasile, il Perù e l’Argentina. Il Messico e l’America centrale sono, invece, pressoché assenti dalla classifica, in quanto sono più direttamente in concorrenza con la produzione cinese a basso costo. Proponendosi come alternativa alle istituzioni multilaterali di sviluppo, il governo cinese investe anche in infrastrutture quali ferrovie (10 miliardi di dollari nella sola Argentina e un collegamento in Colombia tra i due oceani, alternativo al canale di Panama), strade (Perù), comunicazioni satellitari (Venezuela), reti elettriche (Brasile). I porti beneficeranno dell’accresciuto interscambio: ad esempio, è appena stata inaugurata una rotta navale diretta con la Cina da Salvador da Bahia, uno dei più importanti scali marittimi del Brasile.
Come già successo in Africa, la presenza cinese offre opportunità per le industrie pesanti e l’agribusiness locali e costituisce una minaccia per i lavoratori poco qualificati: secondo Kevin Gallagher, docente alla Boston University, il 94% delle esportazioni manifatturiere latinoamericane è minacciato parzialmente o totalmente dai prodotti cinesi. Si spiegano così le recenti manovre “neo-protezionistiche” dei governi brasiliano e argentino, chiaramente dirette contro i prodotti e gli investimenti cinesi, a spese della retorica “sviluppista” che dovrebbe accomunare i Brics.
L’unico dossier politico delicato tra la Cina e la regione riguarda la questione di Taiwan. Alcuni paesi dell’America latina riconoscono ancora la Repubblica di Cina (Taiwan) anziché la Rpc: Belize, Repubblica Dominicana, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Panama, Paraguay, Saint Kitts and Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia. In passato, tra la Rpc e Taiwan era in atto una guerra diplomatica, anche nota come dollar diplomacy, in cui i due stati “compravano” di fatto il riconoscimento esclusivo offrendo aiuti ed investimenti. Negli ultimi anni Taiwan si è trovata ovviamente in una posizione di crescente svantaggio, tanto che secondo il presidente Ma la “tregua” siglata nel 2008 (in base alla quale la Rpc si impegna a non fare alcuna pressione sui 23 stati che hanno relazioni diplomatiche con Taiwan, a patto che il governo di Taipei non cerchi di attrarre a sé nuovi stati) avrebbe impedito la perdita quasi certa di 3-4 alleati, a cominciare da Panama. D’altronde, grazie alle migliorate relazioni tra Rpc e Taiwan, il cui governo è alieno da tentazioni indipendentiste, non si profilano all’orizzonte tensioni di rilievo nei rapporti politici tra la Cina e l’America centrale e meridionale.
Sullo sfondo, però, il posizionamento della Cina come attore economico rilevante nell’emisfero occidentale rappresenta una novità storica per un continente da sempre considerato “il cortile di casa” degli Stati Uniti: non è un caso che la scorsa primavera, nonostante il contemporaneo inizio delle manovre militari in Libia, Barack Obama abbia effettuato, come previsto, il viaggio in Brasile, ribadendo i forti legami storici nonché gli interessi comuni tra Washington e Brasilia.
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