La “Quinta generazione” prende il comando a Pechino

A conclusione del suo XVIII congresso e dopo oltre un biennio di asperrime lotte di potere, il Partito Comunista Cinese – per mano dell’opaco e ristrettissimo nucleo di leader che ne segna il destino negli snodi critici – ha infine imboccato la direzione di un apparente arroccamento istituzionale e politico. A un quarto di secolo di distanza da quel XIII congresso che nel 1985 sembrò consegnare la Rpc ai riformisti eredi di Deng Xiaoping, stampa internazionale e osservatori qualificati hanno reagito con più sconcerto e apprensione del previsto alla presentazione della nuova nomenklatura di vertice del Pcc, apparsa a molti come circondata di un’aura brezneviana.

In realtà, ciò cui si è assistito altri non è che la traduzione in termini di promozione del personale politico della linea del “mantenimento della stabilità” (wending yadao yiqie, 稳定压倒一切), analizzata nel dettaglio da Maurizio Marinelli su OrizzonteCina nei mesi scorsi. Da quello che è stato il primo, grande rinnovamento della massima dirigenza del Partito dopo la morte dei padri fondatori della Rpc (Hu Jintao, infatti, era stato ancora sanzionato da Deng) si desume il radicarsi di due tendenze istituzionali e di tre prospettive politiche destinate a incidere sugli sviluppi in Cina nel prossimo lustro.

La prima tendenza istituzionale riguarda l’arretramento del progetto di istituzionalizzazione delle dinamiche di potere all’interno del Pcc. Archiviati gli ambiziosi tentativi di separazione tra Partito e Stato (dangzheng fenkai, 党政分开) dopo la crisi di Tian’anmen, gli auspici per una pur graduale evoluzione del sistema politico in Cina hanno tratto conforto dalla natura pacifica delle transizioni del 2002-03 e ora 2012-13, dalla regolarità delle più alte procedure istituzionali – i congressi del Pcc e le riunioni dell’Assemblea nazionale del popolo –, dall’affermarsi del limite dei due mandati negli organi apicali e dalla definizione dell’età di 67 anni come massima consentita per l’accesso alle principali cariche pubbliche. Per quanto si tratti di sviluppi positivi se esaminati alla luce delle numerose transizioni abortite violentemente sotto Mao (come nei casi dei “delfini” Liu Shaoqi e Lin Biao) e Deng (Zhao Ziyang), la recente prassi congressuale mostra come essi non siano culminati nel più importante istituto per qualsiasi corpo politico che voglia accreditarsi come rappresentativo, anche se non in senso democratico occidentale: la corrispondenza tra cariche formali e quote di potere sostanziali. Il ruolo preponderante giocato dall’ottuagenario ex-Segretario del Pcc Jiang Zemin, ricomparso d’improvviso sulla scena per imporre una maggioranza di suoi fidi tra i sette componenti del Comitato permanente dell’Ufficio Politico (anche se non tra i 25 membri dell’Ufficio politico medesimo), non va letto soltanto nell’ottica della lotta di potere che ha di fatto marginalizzato l’uscente Hu Jintao: esso segna anche la riproduzione di logiche di pervasiva influenza da parte dei leader anziani già tipiche dell’era Deng, a danno della riconoscibilità dei ruoli e delle responsabilità all’interno di un partito comunista che vede così il proprio statuto fondamentalmente disatteso. Si tratta di una china pericolosa, anche perché tinge di ulteriore ambiguità la pretesa di Pechino di voler tutelare come core interest il sistema politico “delineato dalla costituzione cinese”, come ribadito ancora nel Libro Bianco sullo Sviluppo Pacifico del 2011. A questa prassi problematica si accompagna una seconda tendenza, che non riguarda le “centrali” del potere, bensì gli strumenti e le dinamiche con cui si compete per l’accesso ad esse. Formule, anche blande, di “democrazia intra-partito” paiono aver perso di cittadinanza nel Partito-Stato: se, da una parte, non risulta che i 205 membri del Comitato Centrale abbiano potuto votare realmente per la selezione dei componenti dell’Ufficio Politico e del suo Comitato permanente (hanno partecipato a un esercizio di “raccomandazione democratica” – minzhu tuijian 民主推荐 – nel maggio 2012, risultato ancor più opaco di quello svolto cinque anni fa), dall’altra, tra i sette leader supremi non figurano i potenziali proponenti di riforme politico-istituzionali. Al contrario: vi è chi, come Zhang Dejiang, si oppose pubblicamente nel 2001 all’idea di modificare i paradigmi di rappresentanza del Pcc, aprendolo al contributo e alla membership dell’emergente tessuto imprenditoriale cinese. Per contro, osservando i profili di quanti sono usciti vincitori dal congresso si nota la presenza preponderante di “principi rossi” (taizidang, 太子党), figli di esponenti di spicco dell’epopea rivoluzionaria degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso che esercitano ora un potere politico diretto, oltre a detenere da tempo massiccia influenza in campo economico e, sovente, tra le forze armate. Quanto questo sviluppo possa rivitalizzare la fiducia generale in un partito sovente scosso da episodi di corruzione a tutti i livelli è materia di dibattito, come pure il permanere di un vistoso deficit di rappresentanza femminile (solo 2 membri dell’Ufficio Politico su 25 sono donne) e delle minoranze etniche (appena 10 non-Han su 205 membri effettivi del Comitato Centrale).

Ciò su cui concordano i principali osservatori dentro e fuori la Rpc è che bisognerà attendere per distinguere l’indirizzo politico complessivo della leadership entrante. La sua composizione e la personalità dell’uomo al vertice consentono, però, di cogliere una prima prospettiva politica: il governo per consenso, con l’obiettivo di preservare la primazia del Partito, ritenuta coessenziale al compiersi del ritorno della Cina al suo legittimo rango globale. Xi Jinping coniuga una personalità spiccata e un notevole physique du rôle da leader con estrema prudenza tattica, che ha reso impossibile decifrarne i reali orientamenti politici sinora. La sua vocazione a fungere da baricentro di una leadership collettiva è emersa nel discorso di saluto alla stampa lo scorso 15 novembre, riprendendo un atteggiamento già mostrato in una rara intervista rilasciata nel 2000 durante la sua attività di governo nella provincia costiera del Fujian: “Senza una comunità e senza cooperazione [un individuo solo] non può ottenere nulla. Per questo credo sia meglio concentrarsi su comunità e cooperazione”. Questa, in effetti, è la sfida che egli stesso ha di fronte, nel coordinare un Comitato permanente i cui membri sono stati di fatto designati da altri. Occorrerà attendere il verosimile secondo mandato quinquennale di Xi (2017-2022) perché costoro cessino dall’incarico e risultino non più rinnovabili per raggiunti limiti d’età: a quel punto sarà più chiara la fisionomia dell’agenda di Xi e la sua capacità di costruire intorno a sé una nuova squadra.

Intanto, Xi può contare su alcuni fattori agevolanti: il leader uscente Hu Jintao ha lasciato contemporaneamente al successore la carica di Segretario Generale del PCC e di Presidente della Commissione Militare Centrale, contrariamente a quanto avvenuto in passato. Questo rafforza la presa di Xi sull’Esercito Popolare di Liberazione, i cui alti comandi sono comunque stati ridisegnati dallo stesso Hu Jintao nelle settimane scorse. In secondo luogo, il Comitato permanente si è ridotto da 9 a 7 membri, facilitando il raggiungimento di posizioni consensuali, mentre l’ingombrante portafoglio della sicurezza interna, divenuto burocraticamente ipertrofico in anni recenti, appare degradato. Infine, Xi e i suoi sei colleghi sono più giovani dei predecessori, collocandosi in una finestra anagrafica che fa sì che abbiano condiviso le sofferenze della Rivoluzione culturale, avviando poi la propria carriera nei primi anni delle riforme di Deng (dopo essersi laureati in discipline diverse, incluse le scienze umane e sociali, a differenza dei profili esclusivamente tecnici della dirigenza capitanata da Hu Jintao); tutti hanno esperienza diretta di governo in diverse province della Cina e conoscono la frammentazione nascosta nelle pieghe del sistema cinese.

La seconda prospettiva politica che si può desumere dall’esito del congresso riguarda la continuità con l’orientamento sin qui perseguito di apertura della Cina alle dinamiche dell’economia globale. Nel suo primo discorso da Segretario Generale, Xi ha citato, tra le altre cose, la necessità di soddisfare le aspirazioni di benessere materiale della popolazione cinese e il Comitato permanente è composto da soggetti che conoscono bene i meccanismi dei mercati internazionali. Resta da vedere quale equilibrio verrà ricercato tra la necessità di sviluppare l’economia nazionale nel senso di una maggiore sostenibilità (il portafoglio di Li Keqiang, destinato al ruolo di Premier in primavera) e l’opportunità di sciogliere – o quantomeno limitare fortemente – il coagulo di interessi economico-burocratici e di aderenze politico-familiari presente nella galassia delle imprese controllate dal Partito-Stato (a livello centrale e periferico). Errori nella gestione del fenomeno del guojin mintui (国进民推, avanzamento dello Stato, arretramento del settore privato) possono inaridire la vitalità dell’economia cinese in una congiuntura che è già decisiva affinché la Rpc possa sfuggire alla trappola dei paesi a medio reddito, e all’instabilità sociale che ne conseguirebbe. Il fatto che il ruolo di supporto a Li Keqiang nel governo dell’economia cinese sia affidato a Zhang Gaoli – fautore della turbo-crescita della municipalità autonoma di Tianjin con il sostegno della grande impresa di Stato – induce in questo senso interrogativi maggiori di quanti ve ne sarebbero stati se per quel ruolo si fosse scelto Wang Qishan, di cui sono note le aspirazioni riformiste in campo finanziario. Wang è stato, invece, designato alla guida della Commissione Centrale per l’Ispezione e la Disciplina, con l’ingrato compito di arginare la piaga della corruzione.

Infine, il perdurare della postura del Pcc quale avanguardia, interprete e censore unico della società cinese rappresenta la terza prospettiva politica prevedibile, anche in questo caso in continuità con il recente passato. La cooptazione di Liu Yunshan nel Comitato permanente consentirà a chi ha guidato la propaganda del Partito sin qui di associare a un’esperienza decennale nella gestione dei media il massimo del capitale politico, garantendo enfasi e pervasività alla narrazione che il Partito propone per la (o impone alla) Cina. È con questi strumenti che, tornando al discorso di Xi, “si potrà garantire che il Partito rimanda alla guida del paese mentre questo avanza sulla via del socialismo con caratteristiche cinesi”.

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