Romeo Orlandi, Il sorriso dei Khmer Rouge, Roma, DeriveApprodi, 2017
C’è rabbia nella Cambogia dell’aprile 1975. Rabbia rivoluzionaria. Fervore patriottico. Odio verso i francesi, gli americani e i loro lacchè. A poco a poco, la Kampuchea scivola negli anni bui del governo dei Khmer Rossi, e l’ideologia nega ogni poesia: “A Phnom Penh progressivamente furono chiusi i mercati, i cinema, i ristoranti, i templi, le banche, le scuole. Il traffico era pressoché sparito, così come le passeggiate al fresco la sera, lungo il Mekong” (p. 30). La rabbia è estrema, diventa furia irrazionale, assalto al denaro come simbolo dello sfruttamento delle masse: “L’intero palazzo con i tre piani della Banca Centrale era precipitato, trasformato in un nugolo di macerie. Le carte volavano in cielo, le manopole si erano squagliate per il calore, tutti i vetri erano in frantumi” (p. 31). Bisogna creare l’uomo nuovo. Saloth, un brillante ragazzo del liceo di Siem Reap, viene reclutato nelle file Khmer e sottoposto a ferreo addestramento, un utile appiglio che dà direzione in tempi convulsi e confusi: “… nei tre giorni di cammino si accorse che il rigore può essere un conforto, che la disciplina distoglie da pensieri insidiosi, che le regole aiutano a sopravvivere” (p. 15). Ma la traversata sarà molto più lunga, pericolosa e tragica, per giungere forse alla conclusione che “era leggero il mantello ideologico che cercava di coprire un sistema più grande e complicato. Quando volò via, dischiuse un’immensa sovrastruttura asiatica, composta non tanto da antagonismi di classe, quanto da diversità di religione, nazionalità, lingua e cultura” (p. 21).
Fin qui, nulla di nuovo. Conosciamo la storia della Cambogia contemporanea. Il genocidio messo in atto da Pol Pot. L’ipocrisia dell’Occidente, che formalmente condanna ma in realtà sostiene il regime in funzione anti-sovietica. L’invasione del Vietnam. L’organizzazione delle libere elezioni nel 1992-93 con l’intervento della missione ONU. Ma, superate con agilità le prime cinquanta pagine, ecco che Il sorriso dei Khmer Rouge inizia a spiazzare il lettore, che dovrà aspettare la fine del romanzo per conoscere il finale di una storia che trascende gli eventi cambogiani per riflettere sul destino umano. Ecco che veniamo proiettati nella Roma degli anni ’70, tra i ragazzi borghesi che frequentano i collettivi, che applaudono le lotte proletarie lontane nell’attesa della rivolta armata vicina, giocando con le armi perché “sparare era diventata la scorciatoia più veloce verso l’assoluto” (p. 56). Lo stesso rigore. Lo stesso conforto. Ma un diverso omicidio, un caso irrisolto che invece di stravolgere la società rivoluziona la vita di Andrea, conducendolo nel campo profughi di Khorat, in Thailandia, dove l’unica lotta degna di essere combattuta è quella contro la morte e il dolore.
Ed è qui che Saloth e Andrea, Oriente e Occidente si incontrano, sullo sfondo della campagna di “esportazione della democrazia” tramite lo svolgimento di libere elezioni, ben impersonata da Astrid, una ragazza tedesca mossa da forti ideali di aiuto agli ultimi. Il dialogo tra due mondi così distanti non è facile, e si può subito inceppare, perché parte da presupposti diversi (si legga a proposito la rubrica Sotto i riflettori in questo numero di RISE): “Tu e tanti pontificate dai vostri salotti e dalle vostre scrivanie, ma non conoscete i nostri problemi (…) Venite a dirci che da noi non c’è democrazia, ma le torture che abbiamo subito, le malattie, l’ignoranza, la superstizione che ci hanno imposto sono democrazia? Volete insegnarci a produrre, ma i nostri operai non sanno neanche leggere, non comprendono le lancette degli orologi, non hanno mai visto una macchina” (pp. 51-52). Certo, quale altra via sarebbe stata immaginabile per un Paese così atrocemente devastato? Chi altri avrebbe potuto governare il cambiamento? In fondo, la democrazia “indicava una strada obbligata, dove la volontà non è onnipotente, il tempo non si può comprimere, le aspirazioni vanno governate e non represse” (p. 93).
Ma se la politica fa da cornice al romanzo, Andrea, un giovane medico trasformato dal contatto con l’Asia profonda, con le sue contraddizioni, con la sua apparente lontananza dal pensiero occidentale, ne è il vero protagonista: “In Oriente, il sorriso rispettoso cedeva spesso alla violenza; una religione che predica mitezza non preveniva la tortura. Il radicalismo delle decisioni giustiziava la visione armoniosa della società. Tutto sembrava fatidico, appartenente a un ordine cosmico già scritto” (p. 104). E quando giungerà l’epifania, il vero sorriso che rimarrà impresso al lettore sarà il suo – un sorriso maturo, compassionevole, armonico, profondamente umano, finale, decisamente commovente.
Mentre spesso la lingua italiana viene accusata di essere barocca, Romeo Orlandi (Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, che per RISE cura una rubrica fissa, N.d.R.) nel suo romanzo d’esordio va nella direzione opposta, ricorrendo a uno stile romanico, essenziale, che non lascia spazio a inutili orpelli. Utilizza frasi molto brevi, incalzanti, che sostengono il ritmo della suspense fino all’ultima pagina. Con il ricorso ad abili espedienti narrativi, il romanzo cambia spesso direzione una riga prima che il lettore possa imbattersi in un esito atteso, e anche per questo Il sorriso dei Khmer Rouge è davvero una piacevole sorpresa.
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