Sonia Montrella, Simone Pieranni, Alessandra Spalletta, Antonio Talia Cina, la primavera mancata Roma, L’asino d’oro, 2012. Prefazione di Ilaria Maria Sala
Ci fu un tempo in cui il Nord Africa credeva nella rivoluzione dei gelsomini, prima che le cosiddette “primavere arabe”, invece di sbocciare nella vagheggiata estate occidentale della democrazia e dello sviluppo, si tramutassero nell’autunno dell’instabilità, della repressione, e del conflitto che agita nel 2013 molti Stati della sponda sud del Mediterraneo. Se gli ottimisti diranno che in fondo sulle rive del mare nostrum non è ancora inverno, a Pechino invece la primavera non è mai arrivata, anche se ci fu un momento in cui qualcuno sperò che il vento del cambiamento potesse soffiare anche nell’Oriente estremo. Il 19 febbraio 2011 sul sito americano in lingua cinese boxun.com appare il seguente messaggio, che rapidamente si diffonde sul web: “In questo momento io e te siamo cittadini cinesi con dei sogni per l’avvenire; dobbiamo prendere in mano le nostre responsabilità per il futuro dei nostri figli”. Rispondendo a un appello che circola in rete in quei giorni in favore di una “manifestazione democratica dei Gelsomini”, domenica 20 febbraio 2011 circa 400 persone si radunano di fronte al McDonald’s di Wangfujing, la nota strada commerciale di Pechino. Parte da questo episodio il racconto di quattro giornalisti italiani (è d’obbligo segnalare che uno degli autori, Alessandra Spalletta, contribuisce da tempo a OrizzonteCina), testimoni diretti degli avvenimenti di quei giorni, che allargano poi lo sguardo ad altri sviluppi del rapporto tra potere, nuovi media e nascente società civile in Cina. L’obiettivo del saggio è esplicitato nell’introduzione: spiegare “cosa è realmente accaduto in Cina nei giorni della ‘primavera mancata’ e tent[are] di far capire come un episodio apparentemente insignificante, che non ha lasciato tracce tangibili neanche lontanamente paragonabili al crollo dei regimi nei paesi arabi, sia in realtà destinato ad avere ripercussioni nel futuro immediato della Cina” (p. 8).
Infatti, a partire da quella grigia domenica di fine inverno entrano rapidamente in azione le forze di sicurezza a stroncare sul nascere qualsiasi velleità di protesta collettiva (sulla via Wangfujing compare presto un cantiere stradale, strategicamente posizionato al fine di evitare l’assembramento della folla). Scattano arresti illegali (a cominciare dagli avvocati per i diritti civili del movimento weiquan yundong), azioni di censura sul web, “inviti a prendere il tè” con giornalisti stranieri per rammentare loro il dovere di rispettare le leggi a tutela dello Stato cinese. In altre parole, il tentativo di scendere in piazza a Pechino e in dieci altre città cinesi si rivela un colossale flop. Secondo gli autori, tuttavia, la mobilitazione virtuale ha ottenuto comunque un risultato: proprio l’eccessiva solerzia repressiva dell’apparato istituzionale davanti all’annuncio online di una manifestazione ha dimostrato al mondo intero l’insicurezza del regime e la sua fondamentale debolezza in termini di gestione politica del dissenso, quand’anche questo coinvolgesse soltanto una sparuta minoranza di cittadini cinesi.
Parafrasando Karl Marx, uno spettro si aggira per il libro: quello di Tian’anmen (il titolo del paragrafo 6.2 è appunto “il fantasma dell’89”). Sono i fatti-tabù di Tian’anmen, di cui questo mese ricorre il ventiquattresimo anniversario, ad agitare ancora oggi il dibattito interno al Partito tra chi da quei fatti trasse prestigio e potere e coloro che invece vennero politicamente marginalizzati dopo il 4 giugno 1989. Poiché a Zhongnanhai, a differenza che nella Tunisi di Ben Ali o al Cairo di Mubarak, il regime “fa costante esercizio di autoanalisi” (p. 15), la reazione spropositata del Partito-Stato si può spiegare in due modi: “o il regime proietta ombre sui muri, ingigantendole, oppure i funzionari sanno qualcosa di cui tutti, media, analisti ed esperti, sono completamente all’oscuro” (p. 44). In alternativa, e paradossalmente, può esistere una terza spiegazione: i funzionari sanno quel che è risaputo, e cioè che le criticità dell’economia cinese, accompagnate dalla crisi finanziaria globale, stanno rendendo più fragile il patto sociale (autocrazia in cambio di crescita economica) che nella Rpc regge dagli anni Ottanta. Dall’accensione di una miccia all’esplosione il passo potrebbe essere molto più breve di quel che si pensi, quindi per Pechino occorre non abbassare la guardia. Gli autori si dedicano anche a esplorare i meandri paralleli della politica cinese di quei mesi: il caso di Bo Xilai e quello di Ai Weiwei (adorato dall’intellighenzia liberal dell’Occidente), l’irrisolta questione delle minoranze, la situazione dei cristiani, lo sciopero dei portuali di Shanghai, il “modello Wukan”. Volendo occuparsi alla fine di troppe questioni (direttamente o indirettamente collegate agli eventi centrali del febbraio 2011) in uno spazio limitato, il libro finisce così per dover rinunciare a un maggiore approfondimento di alcune tematiche (quali il ruolo del web, o il rapporto tra repressione, libertà e crescita economica) su cui in realtà il lettore viene sollecitato a conoscere di più. Nondimeno, Cina, la primavera mancata, rientra sicuramente tra gli esempi di quel corretto e rigoroso giornalismo italiano sulla Cina che vorremmo vedere maggiormente rappresentato sui media del nostro Paese, ed è a mia conoscenza l’unico testo in italiano dedicato ai (mai fioriti) gelsomini cinesi.
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