Ronald Coase, Ning Wang, Come la Cina è diventata un Paese capitalista, Torino, IBL Libri, 2014
C’erano una volta due gruppi di studiosi, che discutevano tra loro su quali fossero le vere cause dello sviluppo economico cinese nell’età post-maoista. Un gruppo sosteneva le ragioni della convergenza, cioè dell’adozione dei principi, degli incentivi e dei sistemi regolamentari propri delle economie capitaliste avanzate (soprattutto anglosassoni), mentre l’altra corrente di pensiero era più propensa a sottolineare il gradualismo, lo sperimentalismo, la convivenza di stato e mercato come determinanti fondamentali del successo dell’economia cinese. Secondo il primo approccio teorico, la mancata completa liberalizzazione dell’economia fin dallo stadio iniziale delle riforme – secondo la cosiddetta strategia del “big bang” – fu la causa delle perduranti inefficienze del sistema, mentre i sostenitori del gradualismo ritenevano che una sequenza di esperimenti riusciti avesse ridotto i costi del cambiamento istituzionale e permesso alla Cina di decollare, anche in presenza di enormi sacche di inefficienza.
C’erano una volta e forse ora non ci sono più, almeno dopo avere letto Come la Cina è diventata un Paese capitalista, traduzione italiana del libro pubblicato nel 2012 da Ronald Coase (uno dei più grandi economisti del XX secolo, morto a 103 anni nel 2013) e Ning Wang (professore di scienza politica all’Arizona State University). La chiave interpretativa di questo volume sta in una nota di critica (nota 7, p. 278) delle due scuole: “Entrambe le posizioni, però, considerano la transizione economica un problema tecnico e non capiscono che si tratta essenzialmente di un problema economico hayekiano”. E infatti il libro si inscrive appieno nell’alveo del liberalismo nobile, non ideologico, arricchito dal pensiero istituzionale e dall’indagine sull’uomo – quello, per intenderci, che ama la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, la cui citazione ne suggella le pagine finali.
Se quindi da un lato è naturale aspettarsi che il testo dalla teoria della convergenza (e dalla nuova economia delle istituzioni, di chiara matrice neoclassica) assuma i prezzi, gli incentivi di mercato, lo spirito imprenditoriale individuale come variabili fondamentali, dall’altro sottolinea come le istituzioni abbiano creato, assecondato, ostacolato, guidato una serie di esperimenti che presuppongono una condizione tipica dell’economia di mercato: la “tolleranza dell’incertezza” (p. 47). Sgombriamo il campo da possibili equivoci: gli autori non sposano dottrine stataliste, e ritengono che delle due riforme cinesi (quella avviata dallo stato e quella “dal basso” dei contadini) la prima sia stata all’inizio fallimentare, e solamente davanti al successo della seconda lo stato abbia saputo correggere il tiro (non fino in fondo, peraltro). I grandi eroi (le persone “al margine”) per Coase e Wang sono i quadri del villaggio della “Collina del drago numero nove”, contea di Pengxi, nel Sichuan, che nel 1976 danno autonomamente avvio alla rivoluzione marginalista del sistema a responsabilità familiare, seguiti nel 1978 dai contadini del villaggio di Xiaogang, nell’Anhui; è il governo municipale di Shenzhen che già alla fine degli anni ‘80 avvia la compravendita di azioni delle aziende senza esserne autorizzato; è Chen Guang, il sindaco e segretario del Partito della cittadina di Zhucheng, nello Shandong, che tra il 1992 e il 1994 “senza dir nulla privatizzò 272 delle sue 288 aziende statali o collettive” (p. 238). Gli autori ricorrono persino a Mao per mostrare il proprio entusiasmo: “[il suo] augurio idealistico della metà degli anni Cinquanta – «che cento fiori sboccino, che cento scuole rivaleggino» – si è realizzato in campo economico” (p. 268).
Mentre leggiamo, scorre davanti ai nostri occhi la storia delle idee e istituzioni economiche condivise e attuate dai governanti cinesi: il saggio di Mao (tenuto nascosto fino al 1975) Sui dieci grandi rapporti, in cui il grande timoniere auspicava quella decentralizzazione che Deng avrebbe poi messo in atto; il “balzo all’esterno” di Hua Guofeng tra il 1976 e il 1978, il cui fallimento porterà la leadership in altra direzione; le zone economiche speciali (bellissime le pagine che raccontano “dall’interno” la loro genesi politica); i discorsi di Deng Xiaoping durante il suo viaggio a sud del 1992; i parchi industriali (descritti puntualmente nel loro funzionamento).
Coase e Wang non semplificano, si addentrano nelle pieghe della complessità, e da esse risalgono per tracciare una linea rossa. Considerano i vantaggi della diversità istituzionale, ma ritengono che le imprese di distretto e di villaggio fossero in sostanza delle aziende private. Riconoscono l’importanza delle istituzioni, ma rifuggono dal loro significato identitario. Accettano la bontà delle privatizzazioni, purché venga creato un libero mercato degli asset. Danno senso e significato alle inefficienze, e tengono a mente il rischio politico. Distinguono tra economie di scala interne (molto studiate) ed esterne (ingiustamente trascurate). Accennano alle eredità della storia e della filosofia cinese. Mettono in guardia dal considerare democrazia e mercato di idee aperto come equivalenti, ma pensano che la mancanza di innovazione in Cina sia dovuta alle carenze del sistema universitario, che non permette la libertà di espressione.
Agli autori si può solamente obiettare che è possibile riconoscere un ruolo sviluppista al Partito certamente a livello locale, se si esamina più profondamente l’articolazione del Partito nella società, anche a quei livelli in cui la dicotomia pubblico/privato tende a perdere di significato. Ne sarebbero fieri, perché sanno che la lettura liberale non è l’unica possibile: “Ci vorranno decenni, se non secoli, per spiegare completamente il motivo per cui la Cina è diventata capitalista nel modo in cui l’ha fatto e risolvere così tutti gli enigmi più intriganti” (p. 356).
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