Kai Vogelsang, Cina: una storia millenaria Torino, Einaudi, 2014
Spesso, per abitudine o pigrizia, torniamo a camminare su monti conosciuti e già frequentati, confortati dalle nostre granitiche certezze. Quando però abbiamo il coraggio di sperimentare sentieri nuovi, percorsi inediti, vie poco esplorate, improvvisamente la montagna acquista una luce diversa: la prospettiva inusuale non ne cambia la forma, ma ci porta ad apprezzare aspetti nascosti di una dimensione paesaggistica che credevamo ormai così familiare da risultare priva di segreti.
Questa è la metafora in cui mi sono trovato immerso dopo avere affrontato il lungo trek (di 571 pagine) verso la vetta di “Cina: una storia millenaria”, la rivisitazione della storia cinese proposta da Kai Vogelsang, professore di sinologia all’Università di Amburgo, ora tradotta in italiano per i tipi di Einaudi. Per raccontare millenni di civiltà (dalla preistoria ai giorni nostri), l’autore non segue la ripartizione classica per epoche dinastiche, ma traccia un percorso distinto in base ai grandi mutamenti politici, economici e sociali che caratterizzano la variegata società cinese. Per esempio, scorrendo l’indice apprendiamo che l’età moderna (755-1270) è l’età della rivoluzione economica e dell’invenzione della cultura; la tarda età imperiale (1271-1793) oscilla tra mobilità sociale e dispotismo statale; il XIX secolo registra la differenziazione funzionale e l’invenzione della nazione; la Cina moderna (1912-1978) è caratterizzata dalla società di massa e dal totalitarismo, e infine dal 1978 in poi assistiamo alla seconda modernità della Cina, a cavallo tra società mondiale e nazionalismo.
Per muoverci agevolmente nella foresta popolata di imperatori, burocrati, intellettuali, diplomatici, avventurieri, soldati, filosofi, capitani di ventura, mercanti, contadini, e piena di continue insidie (battaglie, intrighi, assassinii politici, carestie…) Vogelsang offre una bussola ben precisa, rappresentata – in modo esplicito, sul risvolto di copertina – dalla “tensione tra unità e molteplicità”. L’abilità dell’autore sta nel rifiuto del tentativo di ricondurre a unità le note contrapposizioni che attraversano nei secoli senza soluzione di continuità la società cinese (centro/periferia, individuo/ masse, ricchezza per pochi/povertà per molti, isolamento/apertura internazionale ecc.), allo stesso tempo invece riconoscendo nella tensione tra opposti il fil rouge che meglio spiega le apparenti contraddizioni della Cina, un paese troppo ampio, troppo popoloso e geograficamente diverso per non credere che la complessità faccia in realtà parte della spiegazione stessa. In questo senso, quindi, la frammentarietà del potere politico a livello locale non è solo espressione del “caos” così tanto temuto da Pechino, ma è espressione di logiche ben precise funzionali al mantenimento del potere centrale, finché una delle due parti non accumula risorse sufficienti per costringere la controparte a soccombere: in quel momento, finisce un ciclo, e la storia riparte. Il meccanismo è evidente quando a fine Ottocento per un certo periodo i potentati locali puntellano il moribondo impero Qing, ma è soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali che la tensione appare massima (ed è così ben narrata da rendere questi paragrafi tra i più avvincenti).
L’apertura al mondo, iniziata con le riforme di Deng Xiaoping del 1978, si iscriverebbe nello stesso contesto: il Partito a Pechino, sulle macerie della Rivoluzione culturale, raccoglie di nuovo il potere, accentrandolo, servendosi delle Province, tutte dedite anche in maniera autonoma allo sviluppo economico, e rivestendolo della narrazione di un nuovo nazionalismo che prova a ricondurre a unità ciò che raramente nella storia è stato profondamente unitario, pur apparendo come tale. Negli stessi anni di Deng, e in maniera persino più accentuata dopo il 1997, l’Occidente e la modernità economica capitalistica diventano strumenti per gestire la tensione tra forze centrifughe e forze centripete che attraversa tutta la storia cinese: strumenti, e non fini, per preservare l’essenza della Cina, la sua unicità. Ossimori quali “economia socialista di mercato” che gli occidentali (soprattutto se anglosassoni) hanno fatto fatica a comprendere acquistano così il loro significato più profondo, e danno senso a una storia che assume la dimensione di coerenza nell’incoerenza.
Non era facile scrivere l’ennesimo libro di storia della Cina solleticando la curiosità dei lettori, e Kai Vogelsang ci è riuscito: il testo scorre velocemente come un romanzo, quasi come se l’autore stesse dipingendo uno di quegli affreschi storici e sociali che ritroviamo nei romanzi di grandi autori cinesi come Mo Yan. La tensione, paradossalmente, scende quando Vogelsang perde un po’ di vista la sua originale chiave di lettura, per affrontare la ben nota tragicità degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del XX secolo, imperniati sulla figura di Mao Zedong. Ecco, forse in questo caso si tratta di sentieri già tracciati, confortevoli e rassicuranti, ma dopo avere solcato i nuovi itinerari cui il sinologo tedesco ci aveva abituati nelle pagine precedenti, un po’ di delusione è comprensibile. In ogni caso, raggiunta la vetta, possiamo ripensare alla nostra montagna con riflessioni nuove, stimolate da percorsi intellettuali di assoluta eccellenza e rigore, consapevoli che la meta, ancora una volta, è il cammino stesso.
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