[LA RECENSIONE] Curarsi è difficile, curarsi è costoso. Storia, politica e istituzioni della sanità cinese 1978-2013

Daniele Brombal, Curarsi è difficile, curarsi è costoso. Storia, politica e istituzioni della sanità cinese 1978-2013 (Ariccia: Aracne, 2015)

OrizzonteCina ha scelto, fin dalla fondazione della rivista nel 2010, di non recensire in questa rubrica volumi pubblicati dai componenti del comitato di redazione. Nel corso degli anni, tuttavia, la crescente centralità di questa rivista nel dibattito nazionale sulla Cina contemporanea ha portato la redazione ad accogliere nuovi membri, sovente autori di testi significativi. Per non venire meno alla propria mission, privando i lettori di un costante monitoraggio delle pubblicazioni scientifiche più meritevoli di approfondimento, la Direzione di OrizzonteCina annuncia oggi un cambio di policy: fedele allo spirito di imparzialità e ospitalità verso un sano pluralismo metodologico-disciplinare, da questo numero la recensione potrà riguardare anche contributi pubblicati da membri del comitato di redazione.

Giovanni Andornino e Giuseppe Gabusi

Come si misura la grandezza di una potenza? Dall’arsenale militare? Sulla base del prodotto interno lordo? O in relazione alla capacità di assicurare la dignità dei propri cittadini? Queste domande già sorgevano durante il dibattito negli Stati Uniti ai tempi del varo della riforma sanitaria voluta da Barack Obama, e ora si rafforzano dopo la lettura di Curarsi è difficile, curarsi è costoso, il libro di Daniele Brombal sul sistema sanitario cinese nell’età delle riforme (1978-2013), realizzato anche grazie a una ricerca sul campo nell’ambito dei progetti medici della Cooperazione italiana allo sviluppo in Cina, coordinati dal 2008 al 2010 da Giorgio Cortassa – che scrive una delle due prefazioni (l’altra è di Laura De Giorgi).

Brombal sceglie di affrontare questa delicata tematica procedendo dall’analisi dei gruppi d’interesse per dimostrare come la collusione tra medici, personale sanitario, autorità locali e case farmaceutiche abbia dapprima portato a una privatizzazione de facto della gestione sanitaria, e, in secondo luogo, abbia impedito alla riforma sanitaria di Hu Jintao e Wen Jiabao di dispiegare appieno gli attesi effetti assicurativi e redistributivi.

In realtà, nell’illustrare brevemente il funzionamento del sistema sanitario in epoca maoista, l’autore ricorda come il paradigma “produttivista” nell’erogazione dei servizi sociali sia una costante della Repubblica popolare, con “soluzioni subordinate alle scelte di economia politica e di sviluppo del paese, con scarso riguardo per le fluttuazioni sperimentate dai gruppi sociali nell’accedere ai servizi essenziali” (p. 61). Ma mentre prima del 1978 la sanità riusciva a garantire i servizi di base – tanto da meritarsi il plauso delle organizzazioni internazionali, che la additavano a modello per i paesi in via di sviluppo –, con l’avvio delle riforme, il sistema maoista, basato su contributi collettivi e trasferimenti statali, iniziò a collassare. Il cambiamento che i cittadini dovettero affrontare fu epocale: la quota di popolazione assicurata nelle campagne passò dal 90% nel 1978 al 5% nel 1985, mentre il finanziamento delle spese correnti degli ospedali passò in pochi anni dal 50% del bilancio medio al 5-10%. Con l’introduzione dei meccanismi di mercato per fare fronte al tracollo delle spese statali, sempre di più le strutture sanitarie diventarono enti erogatori di servizi a pagamento diretto a carico dell’utente. Non solo: un perverso meccanismo di incentivi collegò la parte variabile del salario dei medici alla quantità di prestazioni erogate, e di farmaci prescritti – una manna per le case farmaceutiche che si buttarono a capofitto nel nuovo business.

I poveri furono le prime vittime – letteralmente – di questa svolta: a causa della mancanza di liquidità disponibile per fare fronte a cure sempre più costose, apprendiamo che “nel 1993 oltre il 36% della popolazione rurale non aveva accesso a trattamenti ospedalieri in caso di necessità […] mentre nel 1998 le spese sanitarie erano causa del 45% dei casi di impoverimento delle campagne” (p. 80). Mentre Pechino e il mondo celebravano l’ascesa della Cina nella classifica delle economie più floride in termini di Pil, un’altra graduatoria – di cui ovviamente i media non si occupavano – svelava come lo sviluppo non necessariamente avesse conseguenze positive sul welfare della popolazione: “nel 2000, l’OMS collocava il sistema sanitario cinese, soltanto 18 anni prima considerato un modello da imitare, al 144° posto (dietro il Burundi) per la sua performance complessiva e al 188° posto per equità, su una classifica di 191 paesi” (p. 81).

Il governo cinese tentò di porre rimedio alla situazione. Nell’ambito della nuova linea dello “sviluppo scientifico”, volta alla realizzazione di una “società armoniosa”, nel 2002 Hu Jintao e Wen Jiabao introdussero un nuovo Schema medico cooperativo rurale (Smcr), ad adesione volontaria e a contribuzione mista, Stato (o, nelle province orientali, autorità locali) / famiglie. Apparentemente, i dati registrarono una decisa inversione di tendenza: nel 2009 l’assicurazione sanitaria copriva il 93% della popolazione delle campagne, contro il 22% del 2003. Tuttavia, quando gli “spiriti animali” del mercato sono lasciati allo stato brado, è più difficile ricondurli nel recinto: in molti casi, poiché la copertura sanitaria era parziale, gli ospedali aumentarono il tariffario, ricevendo due flussi di entrate, dallo Smcr e dall’utente, incrementando quindi il costo medio per trattamento. Se per le patologie meno gravi e prolungate l’Smcr rappresentò una forma di sollievo, per le malattie più serie non risolse il problema, continuando a costringere le famiglie a porre anzitempo fine al ricovero del malato, dopo avere dilapidato i risparmi famigliari, ed essersi magari indebitati. Al momento del ricovero si poteva assistere a una vera e propria contrattazione tra personale medico e paziente sui servizi sanitari da erogare, che dipendevano dalla capacità di spesa dei pazienti. Non è difficile immaginare quanti episodi tragici si siano registrati nelle campagne, come dimostrano le tante interviste nelle aree rurali (dallo Hebei al Tibet, dal Sichuan alla Mongolia interna) condotte dall’autore (che ci regala alla fine del volume anche un piccolo ma intenso reportage fotografico). E nemmeno sorprende che Brombal riveli come all’origine la sua curiosità per la materia nasca da un’intervista con un imprenditore italiano, testimone diretto di un incidente stradale, in cui il contadino investito non veniva raccolto dall’ambulanza, poiché gli operatori non erano in grado di stabilire se il malcapitato poteva permettersi di pagare il trasporto in pronto soccorso.

L’osservazione dei gruppi di interesse coinvolti nel mercato sanitario cinese si completa con l’analisi del comportamento dei funzionari locali, spesso restii ad applicare le nuove regole promulgate dal governo centrale, oppure intenti a potenziare le strutture sanitarie, perorando fondi nazionali e internazionali, trattando la sanità alla stregua di un qualsiasi altro settore produttivo in grado di dare lustro alle contee e alle municipalità, esaltandone le potenzialità economiche piuttosto che considerare “l’erogazione di un servizio sociale in grado di portare beneficio alla comunità nel suo complesso” (p. 126).

Mentre – nello spirito europeo – c’è da augurarsi che il sistema sanitario cinese torni ad assicurare un’effettiva copertura sanitaria universale, restituendo ai cittadini la fiducia verso la classe medica, leggendo il libro di Brombal (e le sue conclusioni, non prive di qualche nota di scetticismo) aumentano i dubbi sulla sensibilità della razza umana, capace di tollerare che lo sviluppo economico si accompagni all’accettazione che una persona debba morire perché non ha i soldi per curarsi. Forse gioverebbe che nelle scuole di management e di politiche pubbliche si tornasse a studiare la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, e non solo la sua Ricchezza delle nazioni.

I libri recensiti in questa rubrica possono essere acquistati presso la Libreria Bodoni di via Carlo Alberto, 41, Torino.

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