Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, Chinamen: un secolo di cinesi a Milano (Padova: BeccoGiallo, 2017)
Chinamen è il termine con cui nel XIX secolo soprattutto negli Stati Uniti e nelle terre dell’impero britannico si definivano gli uomini cinesi emigrati che con la loro manodopera contribuivano alla modernizzazione dei nuovi paesi che li avevano accolti: “Oggi è una parola dal sapore coloniale, che molti cinesi trovano insultante. Ma è anche una sorta di dagherrotipo che permette di restituire per un istante all’immagine dei primi migranti cinesi il sapore tragico e meraviglioso di quella loro prima apparizione, in un mondo così lontano dalla terra dei loro antenati” (p. 157). Così Daniele Brigadoi Cologna (membro del comitato di redazione di OrizzonteCina, ndr) nella postfazione spiega il titolo di questa graphic novel che proponiamo ai lettori. Chinamen è la riproduzione su carta di un breve documentario presentato all’interno dell’omonima mostra allestita nella scorsa primavera dal Comune di Milano e dal Museo delle Culture (Mudec), nello spazio Khaled al-Asaad, dedicato alle attività del Forum Città Mondo, e di cui Brigadoi Cologna è stato curatore.
Diviso in cinque atti, lo spettacolo visivo dell’opera mette in scena l’epopea della storica comunità cinese di Milano, in un racconto che attraversa tutta l’Italia del Novecento. Tutto inizia nel 1906, quando un commerciante cinese, Wu Qiankui, proveniente dal distretto di Qing Tian nello Zhejiang meridionale, giunge a Milano per l’Esposizione internazionale. Qui vende tè e statuine di pietra, e la presenza cinese – al tempo così esotica – suscita interesse e curiosità. Devono però passare vent’anni prima di vedere – questa volta a Torino, giunto dalla Francia – un consistente drappello di cinesi emigrare nel Nord Italia, definito dalla stampa locale “un battaglione di venditori di perle”. Tra piazza Vittorio, via Roma e via Po i venditori ambulanti non trovano infatti difficoltà a smerciare collane di perle di ottima qualità a prezzo imbattibile. Molti si trasferiscono poi a Milano, dove tra piazza Duomo e la Galleria attirano ben presto l’attenzione dei vigili urbani, finendo per essere multati, denunciati, ostracizzati, e – ovviamente – accusati di vendere perle false. Ma è solo l’inizio: nel maggio del 1926 una circolare del Ministero dell’Interno definisce ospiti indesiderati i cinesi, raccomandandone il fermo e il respingimento al confine. Nemmeno il regime fascista riesce però a impedire l’arrivo di parenti e amici di una comunità che nel frattempo era cresciuta, e aveva iniziato a diversificare il proprio commercio, passando alle cravatte.
Atto terzo: allo scoppio della guerra, l’alleanza con il Giappone fa della Cina un paese nemico, e i cinesi d’Italia vengono mandati al confino o nei campi di concentramento come quello di Tossicia, in Abruzzo, o quello di Ferramonti, in Calabria, in cui finiscono molti cinesi di Bologna. Terminata la guerra e abolite le leggi razziali, molti cinesi sposano donne italiane e inizia una nuova fase di inserimento dei cinesi nel tessuto sociale e imprenditoriale delle città in cui vivono. Entrano in scena quindi gli anni del boom: vengono raccontati attraverso la storia esemplificativa di Junsà e Attilia, che nel 1962 aprono “La Pagoda”, il primo ristorante cinese di Milano, attirando una clientela benestante, curiosa, pronta a incontrare – davanti a nuovi piatti deliziosi – le persone che contano. Il principale finanziatore è Jang Fyi Ming (detto Luigino), che apre un laboratorio di portafogli, distribuiti in due negozi a Milano e Brescia: il capitale reticolare, frutto di connessioni e intersezioni famigliari e amicali, sostiene così la diffusione dell’imprenditoria dei cinesi di Milano. Il quinto atto ha come protagonista assoluto Mario Tschang, un giovane intraprendente che parte per il Giappone ormai pronto – siamo negli anni Sessanta – a decollare come economia avanzata. Il viaggio – tra Tokyo, Taipei e Hong Kong – cambierà per sempre non solo la vita di Mario, ma anche la vita di milioni di consumatori italiani, grazie alle piccole grandi meraviglie importate dal Sol Levante, alfiere dell’incipiente globalizzazione. Prima che cali il sipario, il libro si conclude con un piccolo spazio dedicato a Anna Chen, la prima donna cinese immigrata in Italia regolarmente – una figura sorprendente per la molteplicità di obiettivi professionali e personali raggiunti.
In una sapiente e accattivante alternanza di bianconero e colore, le tavole di Chinamen – frutto di una ricerca storica evidentemente rigorosa – impressionano fin dall’inizio per la straordinaria capacità degli autori di trasmettere al lettore, nel testo e nella grafica, l’atmosfera del tempo attraversato dalla storia dei cinesi di Milano. Si rivive la belle époque, nei cappelli e nei bastoni da passeggio dei gentiluomini e negli sguardi intriganti delle donne che acquistano le perle facendo il verso alle attrici del cinema muto. L’imperio fascista aleggia negli anni delle persecuzioni, ma l’idillio montano dei paesi abruzzesi dispiega un futuro fatto di promesse, di ricchezza, in un contesto da piccola Dolce Vita milanese in cui tutto diventa elegante, pulito, accogliente, glamour. L’aereo che porta Mario Tschang a Tokyo trascina tutti nel tempo nuovo dell’Asia che avanza, con le luci delle metropoli, il rumore del traffico, la magia scintillante di prodotti dall’uso quotidiano mai visti prima.
In Chinamen l’epopea della comunità cinese di Milano diventa parte della più ampia storia d’Italia, condividendone paure e speranze, miseria e ricchezza, tragedia e commedia. Finalmente la loro esperienza diventa la nostra storia – un esercizio quanto mai necessario in un paese oscillante tra oscuro vetero-nazionalismo e facile retorica della multiculturalità. Poiché Chinamen si ferma agli anni Ottanta, attendiamo con curiosità la prossima puntata – e ci aspettiamo che la mostra venga riproposta in altre città, sicuri che ci siano altre interessanti immagini del dagherrotipo pronte a essere svelate.
I libri recensiti in questa rubrica possono essere acquistati presso la Libreria Bodoni di via Carlo Alberto, 41, Torino.
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