[LA RECENSIONE] Il Capitalismo. Verso l’ideale cinese

Geminello Alvi Il Capitalismo. Verso l’ideale cinese Marsilio, Venezia 2011

Nel maggio 2011, in occasione del lancio dell’iPad2 nel flagship store di Pechino della Apple, quattro persone finirono all’ospedale a causa della ressa davanti al negozio. La scena si è ripetuta a gennaio di quest’anno, con risse, pugni e calci tra consumatori in coda per acquistare il nuovo iPhone4S, ovviamente andato prontamente esaurito in Cina. Nessun’altra immagine potrebbe meglio riassumere la logica di fondo della critica al capitalismo contenuta nel visionario libro di Geminello Alvi che proponiamo questo mese.

Il capitalismo è una grande fiera delle vanità, che si nutre di invidia sociale e che promette il lusso per tutti. Così facendo, favorisce un processo di omologazione dell’individuo a livello mondiale che collima con l’ideale cinese: “L’omologazione, ch’è l’evolvere a condizione di sudditi ritmati dal dispotismo, è congenita a quel continente dell’anima che è la Cina, che raccoglie il singolo in un’anima che troppo si dilata, fino all’impermanenza di una quietista relatività morale” (p.31). In sedici capitoli, riempiti di frammenti ad incastro come un puzzle rivelatore, l’autore offre con lucidità un affresco del capitalismo che, partendo naturalmente dall’Inghilterra della rivoluzione industriale, giunge fino agli “stati alterati” dei beatlesiani anni ’60 e agli errori di Clinton e di Greenspan (e agli scritti anglofili di Huntington) senza soluzione di continuità intellettuale. Di questa marcia sono protagonisti gli uomini più impensabili: non solo Keynes (reo di avere inserito la spesa pubblica nella contabilità del reddito nazionale), ma anche Marx (che ha invertito la dialettica struttura/ sovrastruttura) e i movimenti anticapitalisti che, di fatto, con la loro richiesta di maggiore presenza dello stato per sostenere i consumi e la democratizzazione del lusso, al capitalismo fanno solo un favore. Di qui anche l’apparente contraddizione cinese.

Iconoclastico, anarchico, colto, provocatoriamente intelligente, refrattario alle ipocrisie, antiamericano, anticinese, anti-Unione europea, anti-immigrazione (“moltitudini transumanti che profanano l’Europa per viverci come hanno visto fare al cinema”, p. 121), il libro è una lettura godibile e vero ossigeno per il pensiero. Per uscire dal labirinto apocalittico (non a caso viene citato l’ultimo libro della Bibbia, e New York paragonata a Babilonia), Geminello Alvi, richiamando Aristotele, Von Hayek e Adriano Olivetti, propone un ritorno alle comunità di persone che si relazionano tra loro senza la mediazione dei marchingegni elettronici (che elevano l’immagine a divinità annullando il pensiero), all’economia del dono (che non pretende di misurare tutte le attività umane in termini di Pil) e al free banking (con la moneta emessa da singoli istituti e non più monopolio degli stati) e infine a uno stato minimo governato da élite competenti nel loro settore. Se si guarda al delirio di un mondo che santifica un uomo che ci ha costretti a passare l’esistenza davanti a uno schermo di computer, illudendoci di dilatare i confini e causando invece quello che Luigi Zoja ha definito “La morte del prossimo”, si è tentati di condividere l’analisi e l’auspicio dell’autore.

Eppure c’è qualcosa che non convince del tutto. A parte il non detto (quale prezzo di vite umane perse in guerra dovremmo pagare per l’abbandono della sovranità monetaria dello stato? Come convincere l’opinione pubblica europea della necessità di allearsi con la Russia?), bisognerebbe guardare il mondo settecentesco con gli occhi degli ultimi, e osservare se davvero le loro condizioni di vita possano essere invidiate, quasi si trattasse di una mitica età dell’oro. Non vorrei che l’anarchia si prestasse a riletture vandeane. La Svizzera sarà anche un esempio di comunitarismo democratico, ma la sua stessa esistenza è funzionale al capitalismo internazionale. La tecnologia è un male? Dipende dall’uso che se ne fa: Internet può anche permetterci di stare più vicino ai nostri affetti, anche se trasforma le nostre case in piccoli uffici. In questa stessa rubrica, a dicembre ricordavamo quale potenziale liberatorio ha la rete nelle società autoritarie. Lo Stato sociale deve uscire dall’istruzione e dalla sanità? Molti autori hanno messo in guardia dai rischi della big society di Cameron (non citata nel libro): comunità più ricche (già, come produrre ricchezza?) offriranno migliori scuole e migliori ospedali, laddove ad esempio in Italia la democratizzazione della scuola pubblica ha permesso di portare l’istruzione negli angoli più sperduti del Paese. Ma soprattutto l’autore dà per scontata la validità degli scritti occidentali sul dispotismo orientale, e si serve di semplificazioni non provate storicamente (“La Cina non può originare dei mutamenti, può solo subirli, esservi indotta, mai avviarli”, p. 42) o venate di eurocentriche parvenze razziste (“La Cina è una forza perfida che gli americani hanno fatto dilatare, per puro tornaconto delle loro aritmetiche”, p. 261). Chi ha detto che solo l’Europa è depositaria della vera razionalità?

Certo, se vogliamo “sperare che il mondo torni a quote più normali/ che possa contemplare i cieli e i fiori” (Franco Battiato), e non ci intrappoli in capriole competitive per raggiungere il superfluo, è da discussioni senza tabù suscitate da libri come questo che bisogna partire.

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