[LA RECENSIONE] Il demone della prosperità Milano

Chan Koonchung Il demone della prosperità Milano, Longanesi, 2012

 

Possiamo avere speranza? Oppure l’umanità deve rassegnarsi a partecipare alla meravigliosa commedia dell’esistenza per evitare di diventare la vittima di un’immensa tragedia? Dove si colloca il punto di compromesso tra ordine sociale e libertà individuale, l’ottimo paretiano da cui a nessuno conviene discostarsi, senza che l’orrore per il caos giustifichi l’annichilimento delle libertà personali? In che misura accettiamo che il benessere e il consumo abbiano sulla nostra capacità critica un effetto anestetizzante? Quale prezzo si paga per la scomparsa della memoria storica?

È finalmente uscito in italiano, tradotto dall’inglese (The Fat Years), il libro di Chan Koonchung, dapprima pubblicato in cinese a Hong Kong nel 2009 (non è distribuito nella Repubblica popolare cinese) e divenuto un caso letterario. Il romanzo è ambientato in Cina nel 2013, ma acquista una valenza che va al di là della sua apparente delimitazione spaziale e temporale, diventando un testo che tratta i temi universali dell’organizzazione politica ed economica della società, sfiorando considerazioni di carattere antropologico. Nel 2011 l’economia mondiale è entrata in crisi, e inizia ufficialmente l’“Età dell’oro dell’ascesa cinese”. Da allora, quasi tutti i cinesi vivono in uno stato di apparente euforia, soddisfatti della propria vita e delle ottime opportunità garantite dalla crescita economica e dalla stabilità del Paese. Peccato che alcuni rammentino, sebbene in maniera alquanto sfocata, che tra il momento dello scoppio della crisi economica globale e l’inizio dell’età dell’oro è passato un lasso di tempo (ventotto giorni) di cui nessuno parla più. Come mai questo intervallo è stato cancellato dalla memoria dell’intera popolazione? Che cos’è successo di tanto terribile in quelle quattro settimane?

Attorno alla figura di Vecchio Chen (dietro cui è facile individuare lo stesso autore), si dipana una trama avvincente che porta il lettore a scoprire le drammatiche risposte a queste domande, non prima di avere incontrato una serie di personaggi che costituiscono altrettanti idealtipi cinesi di oggi: Fang Caodi, il giramondo squattrinato; Piccola Xi, la blogger attivista politica; Wei Guo, il giovane e ambizioso membro del partito; Zhang Dou, il chitarrista che da bambino fu costretto a lavorare in una fornace di mattoni; Wen Lan, la femme fatale ora divenuta imprenditrice e consulente globale; Dong Niang, la prostituta d’alto bordo. Suo malgrado, Vecchio Chen viene trascinato nell’organizzazione del rapimento di He Dongsheng, un membro del Politburo. Dongsheng, costretto al gioco “vivere e morire insieme” (che non sfigurerebbe in un corso universitario sulla game theory), diviene il reale protagonista della spietata (e illuminante) seconda parte del libro, mentre Chan sposta decisamente il registro della narrazione dal genere romanzesco al saggio politico-economico, lasciando tutti (dentro e fuori le pagine) senza fiato.

L’autore mescola sapientemente in una sorta di “thriller del sentimento e della ragione” tutti gli elementi distintivi della Cina degli ultimi decenni: l’ossessione per le statistiche; l’incapacità di fare i conti con il passato; la politica come “arte di distinguere tra il nemico e noi stessi” (p. 71); l’abbondante ricorso all’arma della retorica (“la stragrande maggioranza delle persone… non possiede l’intelligenza per capire le cose con chiarezza”, p. 73); la complessità del sistema politico (“le regole non scritte sono così tante che non te le immagini nemmeno”, p. 106); la consapevolezza di molti cinesi di non vivere nel migliore dei mondi possibili (“sanno perfettamente che quel paradiso è finto, ma non osano ammetterlo”, p. 117), e la certezza delle nuove generazioni di cinesi di “essere già in paradiso” (p. 145); l’autoritarismo paternalista (“se il popolo temeva i funzionari, anche i funzionari temevano il popolo”, p. 181); la necessità per il partito di realizzare grandi imprese per mantenere il potere; l’accettazione e la sapiente applicazione di alcuni principi economici liberali per ottenere il rafforzamento dello stato e della nazione. Tuttavia, a mano a mano che il racconto si dispiega in tutta la sua potenza espressiva, ci si accorge che la Cina è solo un case study all’interno di un più ampio discorso possibile sulla natura della socialità umana, e sulle possibili scelte di governo di una comunità.

Paragonato a “1984” per i suoi indiscutibili tratti orwelliani, Il demone della prosperità ricorda a tratti anche il cinico realismo di William Somerset Maugham in On a Chinese Screen, e la sua tollerante accettazione, un poco dolente e rassegnata, della fragilità e dell’incompletezza umana. Sebbene il testo faccia registrare piccole cadute di tono (mi riferisco in particolare al racconto delle vicende della Chiesa clandestina protestante), e malgrado l’evidente ingenuità in un passaggio analitico (cioè l’idea che basti una crisi economica, benché epocale, a costringere razionalmente Cina e Giappone a stipulare una solida alleanza), il romanzosaggio di Chan Koonchung rappresenta un illuminante squarcio prospettico sul futuro possibile della Cina, e quindi sugli equilibri globali che ci attendono. Affrontare le pagine finali di questo libro può avere l’effetto di una doccia fredda in un mattino d’inverno, dolorosa ma rigenerante: d’altronde, “i fatti autentici spesso sono troppo dolorosi da ricordare, e chi non preferisce il piacere al dolore?” (p. 146). E se invece dare un senso al dolore fosse l’unica possibilità di mantenere viva la speranza?

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