Per conoscere un paese in profondità bisogna sporcarsi i piedi. Occorre lasciare dietro di sé i palazzi del potere, con i loro corridoi ovattati, e gli scintillanti negozi delle capitali. Occorre mettersi in cammino, prendere treni e autobus, imbarcarsi sui traghetti, noleggiare una motocicletta con autista, proprio come fa l’autrice di questo straordinario affresco dell’Indonesia che questo mese presentiamo ai lettori di RISE. Elizabeth Pisani, già giornalista britannica della Reuters a Giacarta e ora consulente nel settore medico, viaggia per tutto l’arcipelago indonesiano fino agli angoli più remoti e lontani dall’egemonia della cultura dell’isola di Java, raccontandoci i mille volti di una “nazione improbabile” che conta (forse, perché il numero dipende dalle stime) ben 13.466 isole, immerse in un cortocircuito spazio-temporale: “si può dire che diversi gruppi vivano in punti diversi della storia umana, tutti in contemporanea. (…) Alcune parti della nazione sono ultramoderne, mentre in altre zone le persone passano i giorni all’incirca come i loro antenati” (p. 85). In effetti, Indonesia ecc. è diverse cose insieme.
È storia. Apprendiamo delle eredità del dominio della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, in termini di cultura della violenza, di stratificazione dei sistemi giuridici, di discriminazione tra etnie nella terra delle spezie. Conosciamo Sukarno, con il suo sforzo di creare l’unità nazionale, e il suo successore Suharto. Ascoltiamo le voci dell’Indonesia democratica, sempre più frammentata e decentralizzata. È geografia. Scorrono davanti agli occhi le foreste impenetrabili e le terre disboscate, i mari caldi e i torrenti impetuosi, i vulcani ancora attivi e le immense coltivazioni, le miniere d’asfalto (!!!) e le strade trafficate. È antropologia. Osserviamo le matriarche mentre ci accompagnano ai riti iniziatici nei villaggi dove gli abitanti sono sospesi tra il rispetto della tradizione e della cultura degli avi e le sirene della modernità – memorabile è l’incontro dell’avvocato attivista contro lo sfruttamento selvaggio delle foreste: “questo ragazzo, che sapeva citare a memoria [le leggi sulla conservazione ambientale], ma che era stato allevato in un mondo nel quale sono le stagioni di raccolta (…) a codificare lo scorrere del tempo, non era in grado di elencare i mesi dell’anno” (p. 323). Siamo partecipi delle cerimonie di passaggio, dai matrimoni più colorati ai funerali più improbabili, e diventiamo comunitaristi: “queste cerimonie, in fondo, danno un senso di appartenenza. Non è una sensazione che si prova spesso a Londra o Giacarta, nei vasti spazi anonimi che plasmano le vite di una crescente popolazione di esseri umani” (p. 173).
È letteratura di viaggio. Ci sediamo accanto all’autrice – anzi, a Elizabeth, perché nel frattempo ne siamo diventati amici – sul ponte di un traghetto in perenne ritardo, mentre cerca di conquistare il proprio posticino in mezzo a intere famiglie bivaccate che non comprendono perché quell’occidentale (o è un’indonesiana?) debba viaggiare in quel modo. Prendiamo una motoretta (sì, una motoretta) e seguiamo quella davanti a noi – sì, c’è Elizabeth lì sopra – sperando che il fango, una frana, o semplicemente una voragine che si apre improvvisamente nel manto stradale non ci inghiottano. È politica. Incontriamo tanti bupati – gli amministratori locali – e apprezziamo la sottile differenza tra corruzione e favore alla comunità (o al clan). Facciamo i conti con la dirompente forza distruttiva del denaro (spesso preso a prestito) nelle campagne elettorali. Diventiamo amici degli ex guerriglieri di Banda Aceh ora divenuti fulgidi amministratori. È economia. L’Indonesia nazione emergente? Seguiamo gli abitanti dei villaggi accanto alle miniere di materie prime, per vedere come la vertiginosa crescita del PIL non si sia tradotta in benessere sostenibile, ma solamente in privazione del possesso della terra e in un consumismo sfrenato che lascia dietro di sé solamente una montagna di debiti. È religione. Scopriamo che anche il conflitto nelle Molucche non ha radici confessionali, ma è basato su una contesa per le risorse. Apprendiamo della tolleranza indonesiana verso le fedi diverse – anche se paradossalmente tutti devono dichiarare l’appartenenza a una delle religioni ufficiali – e capiamo l’importanza della democrazia nel paese musulmano più popoloso al mondo, e il rischio della propaganda religiosa a fini politici, soprattutto tra i gruppi sociali più svantaggiati.
In quarta di copertina, il libro riporta il giudizio del settimanale britannico The Economist (“probabilmente il miglior libro per capire l’Indonesia”), e il parere di Simon Winchester (uno dei più grandi scrittori di viaggio degli ultimi decenni) sul Wall Street Journal, secondo cui “la Pisani è una forza della natura” e la sua è “un’impresa spettacolare e uno dei migliori libri di viaggio che io abbia mai letto”. Già dopo avere affrontato i primi due capitoli, lo scetticismo che vi aveva pervaso davanti a cotanta iperbole svanisce come nebbia che sale dal mare, perché l’autrice dimostra una personalità trascinante, come se vi prendesse sotto braccio e vi portasse nel mezzo dell’azione, o della riflessione, e così potete sentire i suoni, annusare gli odori, ascoltare gli umori dell’Indonesia. E non importa se le poche certezze che avevate sul paese si vadano sgretolando a poco a poco. Tranquillizzatevi: “nel corso del tempo, cominciai ad accettare l’idea che ci sono così tanti mondi e vite in Indonesia che semplicemente non li conoscerò mai” (p. 428), e forse è la paura di giungere a questa conclusione che ci tiene spesso aggrappati al conforto dei palazzi e dei centri commerciali delle capitali.
Di più. Se credevate di leggere un libro sull’Indonesia, vi siete sbagliati: questo è un viaggio nell’eccetera. Da raccomandare, ma con una certa precauzione. Se infatti lo inizierete in stazione o in aeroporto, perderete il treno o l’aereo. Se lo comincerete in autobus mentre state andando al lavoro, rimarrete seduti fino al capolinea, e perderete il vostro impiego. Perché, una volta iniziato il viaggio, doverlo interrompere sarà una vera sofferenza, intenti anche voi – con Elizabeth – alla ricerca del vostro “eccetera” asiatico.
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