La questione tibetana, drammaticamente riproposta nelle ultime settimane dalle proteste e dai gesti estremi di alcuni monaci nelle aree del Tibet storico, continua a rappresentare un ostacolo al dialogo tra Occidente e Pechino sul rispetto dei diritti umani e delle minoranze. È come se ogni attore coinvolto parlasse una lingua diversa, incomprensibile agli altri. Le letture della storia divergono, e le lenti con cui in Occidente guardiamo a quella parte del mondo sono spesso colorate di inconsapevole orientalismo, figlio un tempo delle lunghe frequentazioni dell’altopiano da parte dei viaggiatori (vittoriani e non solo) e oggi delle visite più frettolose delle star di Hollywood. Il libro di Wang Hui, docente all’Università Tsinghua di Pechino e uno dei più influenti intellettuali cinesi, offre una prospettiva cinese sul Tibet, aiutandoci a comprendere meglio perché la questione sia così difficile da risolvere.
L’Occidente in età moderna non è stato mai indifferente alla cultura e alla religione lamaista tibetana, ma ne ha fatto oggetto di analisi di segno diametralmente opposto. Mentre Rousseau, Kant e Hegel ebbero una posizione illuministicamente critica verso la spiritualità tibetana, altri pensatori, come Herder e Helena Petrovka Bataski, fondatrice della Società Teosofica (nel 1875), ne ebbero una positiva. La visione della Bataski, in particolare, fu all’origine della fascinazione nazista per quelle terre (tanto che Hitler vi spedì Ernst Schäfer, alla ricerca delle origini misteriose della pura razza ariana, come ben raccontato nel libro di Christopher Hale La Crociata di Himmler). Wang osserva come non solo gli occidentali non abbiano mai abbandonato le concezioni orientaliste (“per loro, il rapporto Oriente/Tibet è il prerequisito della costruzione del sé”, p. 41), ma anche come i cinesi, a fini commerciali-turistici, sfruttino ora l’immaginario occidentale legato al mito dello “Shangri-La”.
Il quadro è ulteriormente complicato dalla controversia storica sullo status del Tibet, su cui peraltro tutti i governi occidentali riconoscono la sovranità di Pechino. La controversia è presentata dall’autore come un riflesso dell’interferenza dell’impero britannico nell’area (ricostruita in tutte le sue tappe), che introdusse, fra l’altro i concetti di “cultura, nazione e sovranità”, sconosciuti alla regione, nel sistema tributario sinico, scardinandolo.
La stessa concezione delle Regioni autonome, previste dalla Costituzione cinese, si basa, secondo Wang, sul rifiuto del nazionalismo di matrice europea, che postula una coincidenza tra etnia e territorio, e su tre principi ben definiti: “la cooperazione tra le nazionalità”; l’autonomia del territorio, e non di una singola etnia predominante; e lo sviluppo “insieme”, nella differenza tra nazionalità. In altre parole, la Repubblica popolare cinese (Rpc) non sarebbe né uno stato federale né uno stato nazionale, ma “una struttura unitaria di nazionalità plurali”: “questa concezione differisce grandemente dai concetti di ‘unicità’ e di ‘fusione’, in quanto, mentre questi ultimi implicano una unificazione dei popoli sotto l’egida della nazionalità han, l’espressione ‘unità plurale’ mette in evidenza un lento processo di ibridazione e di fusione che non implica alcuna assimilazione unilaterale” (pag. 82). Wang ritiene che il sistema abbia funzionato in epoca socialista (con l’eccezione del periodo traumatico della Rivoluzione culturale), e abbia condotto all’affermazione di un’idea di nazione come “entità politica costituita da un soggetto – il renmin-popolo – che è l’insieme della collettività civile (p. 84).
La tesi centrale del libro è che il sistema delle Regioni autonome sia oggi in crisi a causa della tensione tra modernità e tradizione, e del continuo collegamento tra politica interna e forze straniere e delle diaspore; entrambi i fenomeni sarebbero da ascrivere allo sviluppo economico e alla globalizzazione (e non da imputare a un presunto dominio etnico degli han) ovvero alla “de-politicizzazione” della società cinese. La crisi tibetana viene quindi inscritta all’interno della più ampia “crisi nazionale del post-socialismo cinese” (p. 108), che porta anche ad acuire “la caratteristica ‘orientalistica’ della cultura etnica per andare incontro alle richieste del mercato” (p. 110).
Quando l’autore afferma che “alle radici dell’odio sta la sovrapposizione superficiale del processo di secolarizzazione e di sinizzazione” (p. 117), egli sembra dimenticare come le preoccupazioni dell’etnia tibetana (per quanto si registrino voci diverse al suo interno) legate ai movimenti migratori degli han alla ricerca di progresso e affari si nutrano della percezione di un dominio neo-coloniale che si estrinseca in modalità discriminatorie di distribuzione delle cariche pubbliche e di creazione di opportunità economiche. Non occorre peraltro essere demografi per sapere che i numeri contano.
I monaci che si danno fuoco saranno anche vittime di un orientalismo allo specchio, ma l’atto in sé del sacrificio ultimo è emblematico di un profondo malessere ed esasperazione. Per evitare queste tragedie, è necessario continuare a ricercare il modo di uscire dallo stallo attuale: “Se si vuole spezzare questa cornice dell’antagonismo sino-tibetano, è necessario ripensare da zero la nostra logica di sviluppo, creare maggiori spazi pubblici di inclusione nei quali le voci del popolo possano trovare piena espressione, per gettare le fondamenta di una nuova politica delle uguaglianze” (p. 130). Appunto.
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