Thant Myint-U, L’altra storia della Birmania. Una distopia del XXI secolo, Torino: Add Editore, 2020.
Nell’ottobre del 2017, nel mezzo della crisi umanitaria dei Rohingya che affliggeva lo stato Rakhine, nel Myanmar nord-occidentale ai confini con il Bangladesh, Thant Myint-U, influente storico e intellettuale birmano, scriveva un editoriale per il Financial Times intitolato “È tempo di gettare a mare la favola del Myanmar”. L’articolo fece molto discutere, perché l’autore non è un personaggio qualsiasi: nipote di U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite negli anni Sessanta, appartiene alla ristretta élite cosmopolita del Paese. Già funzionario delle Nazioni Unite dopo avere studiato in America, pur avendo scelto di vivere a Bangkok negli anni della dittatura militare, non perse mai i contatti con la madrepatria. Negli ultimi anni è stato anche un consulente del governo di transizione di Thein Sein, prima della storica vittoria elettorale nel 2015 di Aung San Suu Kyi, l’eroina birmana premio Nobel per la Pace, giunta al potere dopo anni di restrizioni della libertà personale ad opera della giunta militare che accentrava il potere fino al 2011. La tesi di Thant Myint-U era molto semplice. L’Occidente aveva puntato tutto su di lei – “The Lady”, come ricordava il film agiografico di Luc Besson che contribuì a fondarne il mito – e sulle libere elezioni come ricetta per raddrizzare le storture della repressione, dei conflitti interni e della povertà in Myanmar. Con l’ottimo inglese frutto degli anni vissuti a Oxford insieme al marito professore e ai figli, gli scritti grondanti ispirazione morale – come il best-seller mondiale Libertà dalla paura –, e i delicati fiori nei capelli, Aung San Suu Kyi era la perfetta icona per i diritti umani e la democrazia in Myanmar, difesa dai governi di mezzo mondo e sostenuta dalle celebrità di Hollywood e dalle crociate pop di artisti del calibro di Bono (gli U2 le dedicarono addirittura una canzone, Walk On). Thant Myint-U sosteneva che l’approccio semplicistico dell’Occidente offuscò, agli occhi dell’opinione pubblica, i complessi problemi del Myanmar e generò l’illusione che la democrazia fosse la bacchetta magica in grado di risolverli. In altre parole, l’Occidente – forse anche a causa del retaggio di un certo orientalismo di maniera – si era raccontato la favola del Myanmar e non aveva capito in profondità le dinamiche in atto nel Paese.
Il nuovo libro di Thant Myint-U – sostenuto nella traduzione italiana anche da T.wai, il Torino World Affairs Institute – in un certo senso è lo sviluppo coerente, lucido e articolato di quell’articolo. A distanza di quasi cinque anni dalle elezioni del 2015, la crisi umanitaria dei Rohingya ha demolito quel che restava della figura morale di Aung San Suu Kyi: la sua ferma difesa dell’operato del governo davanti ai giudici della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja – chiamati a pronunciarsi sulla questione del genocidio nel Rakhine – ha suscitato enormi critiche nello stesso ambiente delle organizzazioni umanitarie che l’avevano sostenuta negli anni bui. Così, l’Occidente sembra voltare le spalle al Myanmar, mentre i problemi irrisolti del Paese non solo permangono, ma si acuiscono: i conflitti interni riprendono forza; la povertà continua a essere diffusa, mentre aumentano le disuguaglianze; le tensioni tra buddisti e musulmani ripropongono la questione identitaria.
Il Myanmar è diventato una “distopia del XXI secolo”, in cui tutto è così estremo che è difficile trovare facili soluzioni alla portata di una singola leader. Il titolo originale del lavoro è The Hidden History of Burma: Race, Capitalism and the Crisis of Democracy in the 21st Century, e ben riflette ciò che sta a cuore all’autore. La storia è “nascosta” perché non l’abbiamo voluta vedere. Non abbiamo voluto ricordare come l’imperialismo britannico abbia lasciato dei segni profondi nella costruzione stessa della Birmania: concepita dagli inglesi come un cuscinetto per proteggere da est l’India, il gioiello della corona, non fu mai un Paese unito. Le minoranze delle alture del Kachin e dello Shan non furono mai direttamente amministrate dal governo coloniale. La migrazione dei bengalesi dall’India nord-orientale complicò ulteriormente un quadro etnico già composito, in cui la presenza di buddisti fieri dell’antica grandezza del Regno Arakan si sarebbe un giorno rivelata esplosiva. L’intero discorso fondativo della nazione – basato sulle “razze indigene” che compongono il Myanmar – impedisce di sviluppare riflessioni su concetti quali cittadinanza, multiculturalità, appartenenza a uno spazio pubblico condiviso. Il timore verso le intenzioni degli stranieri – e degli occidentali in primis – è diffuso. Così, tra milizie armate etniche strutturate, gruppi criminali in alleanza d’affari con chiunque voglia spartire risorse, bande di trafficanti dediti alla produzione di droghe di ogni tipo, contrabbandieri, l’esercito regolare che risponde alle provocazioni con la brutalità sperimentata nella giungla nei decenni passati, interferenze esterne di ogni tipo, il Paese – certo più libero di un tempo – è lungi dall’essere pacificato. Il capitalismo degli anni Novanta, quando le forze armate iniziarono una serie di attività economiche, non è scomparso, ma si è addirittura rafforzato grazie all’afflusso di nuovi capitali stranieri, attirati nel Paese dalla rimozione delle sanzioni occidentali.
In effetti il libro è un appassionato e appassionante racconto di un insider degli eventi accaduti – spesso dietro le quinte – soprattutto a partire dal 2011, in seguito all’instaurazione del governo Thein Sein e l’avvio della transizione verso un governo di coabitazione tra civili e militari. Grazie a una prosa accattivante che tiene il lettore letteralmente incollato alla pagina, scorrono davanti ai nostri occhi generali, ministri, attivisti, Laura Bush, Barack Obama, Hillary Clinton, e tutto il circo di diplomatici, funzionari di organizzazioni internazionali, consulenti, pronti a dispensare aiuti finanziari e consigli di ogni sorta pur di garantire il lieto fine alla favola birmana. Non solo: l’autore intervista anche gente comune e le storie divengono storia, che sia il dramma dei sopravvissuti al ciclone Nargis che devastò il Paese nel 2008, o la vicenda esemplificativa di una donna disoccupata costretta a prostituirsi in Thailandia e finita a Shanghai come sposa rapita.
È proprio il destino delle persone che sta a cuore a Thant Myint-U, che si toglie anche qualche sassolino dalla scarpa nei confronti dell’Occidente, per esempio, le cui sanzioni tolsero un lavoro e un’occupazione decente nel settore tessile a onesti uomini e donne. Non mancano nemmeno velate critiche al governo di Aung San Suu Kyi, poiché la democrazia intesa come processo elettorale non è una panacea, e certo non significa smantellare organismi che per certi versi potevano ancora funzionare. Ora che la favola del Myanmar è finita, è rimasta la realtà di un Paese in cui povertà, violenza, privazioni sono elementi concreti con cui la popolazione deve fare i conti quotidianamente. E, all’orizzonte, si vede un modello di sviluppo neoliberale che ha già mostrato tutte le sue criticità, e il cambiamento climatico, di cui le stime dicono il Myanmar sarà una delle principali vittime, a cominciare dalla capitale Yangon. Non è un quadro ottimista che emerge dalla lettura, ma a maggior ragione “l’altra storia della Birmania” diventa una lettura imprescindibile per tutti coloro che continuano ad amare la gente del Myanmar alla fine delle favole.
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