Romeo Orlandi (a cura di), Le anime dello sviluppo. Religioni ed economia nel Sud-Est asiatico, Bologna: Il Mulino (Collana AREL), 2018.
Il Sud-Est asiatico è una terra di grandi diversità etniche, culturali e religiose. Per secoli crocevia di commerci tra l’Europa, la penisola arabica, il subcontinente indiano e l’Estremo Oriente, i Paesi della regione sono oggi il risultato di un’affascinante interazione con la modernità: proiettati nel “secolo asiatico” che promette crescita e sviluppo, appaiono spesso come pedissequi imitatori delle storiche potenze capitaliste europee. Ma quanto c’è di importato e quanto invece di specifico nella recente esperienza economica di questi Stati? E soprattutto, quanto contano le radici culturali e religiose per un Paese che intraprende un percorso di sviluppo capitalistico? A questa domanda cerca di rispondere Le anime dello sviluppo, un libro pubblicato in doppia lingua (italiano e inglese) da Il Mulino-AREL (l’agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta) nella collana curata dall’Associazione Italia-ASEAN (del cui comitato scientifico il vostro recensore fa parte).
Se volessimo riassumere il contenuto del volume in poche parole, potremmo dire che si tratta di un testo di political economy delle religioni, che svela, suggerisce e richiama gli incentivi politici ed economici che sono stati plasmati da peculiari eredità storiche, culturali e – appunto – religiose. Come ricorda Romeo Orlandi nel saggio introduttivo, “[…] la religione svolge nel Sud-Est asiatico un ruolo nevralgico. Lo espande nelle decisioni politiche, lo incarna nel tessuto sociale, lo innesta nella distribuzione della ricchezza” (p. 22). Orlandi ricorda come grandi pensatori dell’Occidente come Karl Marx, Fiedrich Hegel, Max Weber e Karl Wittfogel ritenevano, sbagliando, che l’Oriente, governato da atavici regimi despotici, sarebbe stato condannato all’immobilismo, secondo una visione orientalistica che Edward Said ha, come noto, smascherato. Invece, oggi possiamo dire che “in tutti i dieci Paesi dell’ASEAN, il ruolo delle grandi organizzazioni religiose è di isolare le pulsioni estremiste, di favorire il dialogo e di assecondare lo sviluppo economico” (pp. 22-23). Non è un caso peraltro che tra gli undici autori dei capitoli figurino due affiliati alla Comunità di Sant’Egidio, nota soprattutto per le numerose mediazioni in guerre interetniche e non solo.
Valeria Martano, nel saggio “Fedi e popoli nel Sud-Est asiatico” sottolinea come alla fine delle Guerra Fredda il ritorno della religione nella sfera pubblica, nel cosiddetto Sud del mondo, “risponde a una ridefinizione delle identità nazionali in epoca post-coloniale”. Nella regione, ciò significa nuovo vigore per l’Islam, maggioritario, ma anche per il buddismo, il cristianesimo, l’induismo e anche per i culti animisti storicamente precedenti.
Islam nel Sud-Est asiatico significa innanzitutto Indonesia, e particolarmente interessante è il capitolo dedicato al ruolo della Muhammadiyah, scritto da due membri di questa organizzazione religiosa, fondata nel 1912, in cui si evidenzia il sostegno a uno sviluppo che avvenga a beneficio dei più poveri e deboli della società, contro gli eccessi della liberalizzazione neoliberista. La Muhammadiyah critica anche l’elevata disuguaglianza nel Paese, soprattutto a causa della mancata distribuzione della terra – stupisce apprendere che “la terra complessivamente usata per attività economica dall’1% degli imprenditori rappresenta il 74% del totale, con alcune fonti che stimano invece si tratti del 93%” (p. 71). C’è soprattutto moralità nella visione della Muhammadiyah, ancora prima dello stato o del mercato: “Il mondo economico fine a sé stesso di oggi rende l’economia priva di un suo lato umano. […] È intriso di speculazione che assorbe la ricchezza del terzo mondo, di bubble economy e di disoccupazione dominante. Questa situazione richiede un nuovo approccio economico […]” (p. 73). Incuriosiscono peraltro le ultime due righe del contributo, che fa coincidere il “disagio delle differenze economiche” con “l’ascesa della Cina, nel suo diventare una grande potenza e una minaccia per la vera indipendenza dell’Indonesia” (p. 74): non certo un gran segnale di dialogo internazionale, a onore del vero.
L’Islam – sostiene Roberto Fabbri, imprenditore e consulente aziendale basato a Singapore – “tenta di trovare un terreno comune dove il welfare dell’individuo e quello collettivo possano immediatamente conciliarsi” (p. 78). Come caso studio, l’autore sceglie il complesso mondo della finanza islamica, i cui strumenti nascono dalla proibizione del Corano di riscuotere interessi sui prestiti. L’altro Paese a maggioranza islamica nel Sud-Est asiatico è la Malaysia, alla cui esperienza di “stato sviluppista” è dedicato un capitolo scritto da Andreas Ufen. L’accademico dell’Università di Amburgo evidenzia la dimensione religiosa del connubio tra Stato e mercato che ha rafforzato l’élite bumiputra, da sempre al comando degli snodi nevralgici della political economy malaysiana.
Armonia, uguaglianza, inclusività sono anche i cardini della “Buddhist economics”, riassunta da Clair Brown, una delle massime esperte mondiali dell’argomento, docente a Berkeley. L’autrice richiama il pensiero di Amartya Sen, secondo cui “gli approcci allo sviluppo «orientati all’opulenza» abbiano fallito nell’includere concetti fondamentali come la giustizia sociale e lo sviluppo umano” (p. 59). Non sorprende perciò che vengano sottolineati gli elementi dell’economia buddista, ora divenuti mainstream, rintracciabili negli obiettivi dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e di cui si sentono gli echi nell’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.
E cristianesimo nel Sud-Est asiatico significa soprattutto Filippine, Paese a maggioranza cattolica, un “ibrido originale” secondo Mario Giro, già viceministro degli Affari Esteri dal 2013 al 2018, dove la Chiesa ha tradizionalmente sostenuto le grandi famiglie latifondiste che dominano il Paese. Ciò spiega le tensioni tra l’episcopato e il “populista” Rodrigo Duterte, salito al potere dalla periferica (e islamica) isola di Mindanao. Ma, curiosamente, significa anche Singapore, interpretato attraverso le lenti di San Tommaso D’Aquino. Chua Soo Meng Jude, professore di filosofia alla Nanyang Technological University, una delle più prestigiose università dell’Asia, ritiene che la “nuova teoria della legge naturale”, elaborata dal santo, sia in grado di spiegare la continua aspirazione della società stato a formare cittadini che siano in grado di conciliare la pragmatica tensione verso gli obiettivi economici con la necessità di condurre “vite che veramente abbiano valore e siano ben vissute da noi stessi e da coloro che sono a nostro carico, e a ordinare le nostre parole e azioni di conseguenza” (p. 145).
Non manca il grande affresco storico di Sauro Mezzetti, imprenditore di stanza in India, dedicato al ruolo dei chettiars, i mercanti indiani veicolo della diffusione della religione indù in questa parte di mondo. Ancora oggi, le minoranze induiste a Singapore e in Malaysia rivestono ruoli sociali importanti, nel commercio, nell’artigianato e nelle professioni.
Se il lettore penserà a questo punto che si tratta di un libro molto eclettico, ricco di spunti da approfondire, denso di riferimenti intellettuali, troverà conferma nell’ultimo spiazzante capitolo di Andrea Acri, professore alla École Pratique des Hautes Études di Parigi, dedicato al tantrismo e alla formazione dello Stato in Indonesia. Nella diversità delle esperienze religiose presenti nel Sud-Est asiatico, infatti, non dobbiamo dimenticare la presenza di elementi esoterici, magici, mitologici, che producono riflessi non trascurabili sulla politica e sull’economia (in Myanmar, ad esempio, un dittatore sostituì le banconote con i decimali con tagli a multipli di nove, cifra ritenuta più propizia). Perché, alla fine, questo volume è per le anime curiose, interessate a esplorare i Paesi del Sud-Est asiatico oltre l’immagine stereotipata creata ad arte dall’Occidente, in epoche peraltro sospette.
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