[LA RECENSIONE] Le società segrete in Cina (1840-1911)

Fei-Ling Davis, Le società segrete in Cina (1840-1911) Milano, Ghibli, 2013

 

A distanza di più di quarant’anni dalla prima edizione (1971), un coraggioso editore milanese ristampa un’opera di grande valore storico e politologico dell’antropologa sociale Fei-Ling Davis, nata in Cina nel 1940 e trasferitasi presto in Inghilterra per seguire la madre. Nella prefazione del libro si legge: “Come tutte le società la cui esistenza dipende dall’irrazionale subordinazione degli interessi della schiacciante maggioranza della popolazione a quelli di un’esigua minoranza, auto-nominatasi classe dirigente, la società cinese tradizionale era lacerata da un permanente conflitto di interessi, che generava irrequietezza popolare, resistenza clandestina e atti di rivolta aperta. La repressione, con i suoi effimeri successi, non faceva altro che rafforzare e, in ultima analisi, radicalizzare la resistenza popolare contro l’ordine costituito. Quando la vecchia classe dominante cominciò a decomporsi e a essere sostituita da una nuova élite dirigente, che si richiamava a una scala interamente nuova di valori economici e sociali, era inevitabile che si sviluppasse una situazione rivoluzionaria”.

Partendo da un retroterra culturale “eterodosso” buddista – secondo una leggenda popolare, la Triade sarebbe stata fondata da monaci del monastero di Shaolin – o taoista (declinato in gradi diversi di “laicità”) in forte contrapposizione con “l’ortodossia” confuciana, le società segrete in Cina hanno attraversato da protagoniste la storia politica asiatica dell’Ottocento; esse contribuirono a sostenere le principali rivolte anti-imperiali (Taiping, 1850-66, Nien, 1850-1868) e – più in generale – quei radicali cambiamenti sociali che avrebbero portato nel 1911 alla nascita della Repubblica di Cina. Infatti, le società segrete nacquero per “liberare il popolo cinese dall’oppressione dei suoi corrotti governanti” (p. 9), e tra i loro adepti c’erano soprattutto contadini senza terra, artigiani senza proprietà e senza lavoro, piccoli commercianti, uomini di fatica, facchini e soldati sbandati – “considerati ufficialmente «popolazione fluttuante» o yuo-min (letteralmente, «vagabondi»), come tali esposti alla persecuzione delle autorità” (p. 135). Da questi “perdenti” sarebbe nata quella classe sociale che – approfittando della debolezza della dinastia Qing, esposta a fortissime pressioni interne ed esterne – avrebbe scardinato il mondo agrario-burocratico del potere imperiale e portato – dopo un lungo interregno e una guerra mondiale – alla fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc) nel 1949.

Ma la società segreta ebbe un ruolo ambiguo: “nemica dello stato”, era “al tempo stesso… integrata nelle sue strutture, mantenendo così una posizione di equilibrio tra le forze dell’ordine e quelle del caos” (p. 233); fu così che “le sette, mentre […] allevavano nel proprio seno le classi pericolose per la società costituita, al tempo stesso ne contenevano la spinta rivoluzionaria” (p. 232). Il Kuomintang comprese i limiti ma anche le potenzialità delle società segrete, e ne fece propri i principi, a cominciare dal riconoscimento “dell’uguaglianza morale tra gli uomini”: è interessante scoprire quanto il programma rivoluzionario del partito repubblicano si sovrapponga in larga parte agli obiettivi politici della Società della Triade. Lo stesso Sun Yat-sen nel 1894 a Honolulu, fondando la “Società per la rinascita della Cina”, si richiamò alla struttura organizzativa tipica delle associazioni volontarie cinesi. A riprova della contiguità del nascente movimento rivoluzionario con i canali sotterranei dell’insoddisfazione sociale, quando ad una ad una le sezioni di Honolulu, di Hong Kong e di Yokohama della “Società per la rinascita” si sfasciarono, i loro membri più influenti entrarono nella “Società dei fratelli” e nella Triade di Hong Kong, e da questo incontro sarebbe nata la “Società per la rinascita degli Han”, con Sun Yat-sen come presidente. Di più: nel 1900, ritornato alle Hawaii, Sun entrò a far parte della sezione di Honolulu della Triade.

Inevitabilmente, però, l’apogeo delle società segrete coincise anche con l’inizio della loro trasformazione e – per così dire – del percorso che le avrebbe condannate al ritorno nell’ombra quando il governo nazionalista avrebbe perso la lunga guerra civile con i comunisti: usciti allo scoperto, i membri delle società segrete diventarono i più ferventi “assassini prezzolati del governo” (nel 1927, ad esempio, repressero la rivolta pacifica degli operai a Shanghai) e gli “agenti degli elementi più corrotti e reazionari del partito nazionalista” (p. 249). Fu così che le società segrete “assunsero caratteristiche assai simili a quelle della mafia siciliana” (ibidem) – un mutamento significativo di prospettiva, per un’organizzazione nata per avversare le rigide regole del lignaggio di matrice confuciana.

Benché alle società segrete per diventare esse stesse forze rivoluzionarie mancassero un programma politico unitario e coerente e un’organizzazione centralizzata a livello nazionale, l’autrice dà una valutazione tutto sommato positiva del loro ruolo riformista, perché con la loro attività avrebbero contribuito a rendere popolari, e accettabili, le idee repubblicane.

Ristampare nel 2013 Le società segrete in Cina – che si basa su documenti usciti clandestinamente dal paese – è scelta felice: in una Cina con molti perdenti (una nuova “popolazione fluttuante”) e migliaia di proteste sociali, e in un mondo in cui proliferano centri di potere alternativi agli stati falliti o sull’orlo del fallimento (si pensi alla Somalia, alla Libia, alla Siria, o a molti paesi dell’America centrale) ed è difficile distinguere tra banditi, guerriglieri, trafficanti, predicatori, erogatori di servizi sociali, uomini politici, agenti di sicurezza… rileggere il processo di formazione, di affermazione e di trasformazione delle società segrete nella fase di declino dell’impero cinese aiuta a ragionare sull’evoluzione dei regimi politici instabili e sulla political economy della violenza. Non è un caso che in quarta di copertina Eric Hobsbawm – il cui “Forme primitive di rivolta sociale”, del 1959, è un chiaro riferimento intellettuale dell’autrice – sottolinea come il libro vada “oltre lo specifico interesse delle ricerche sull’Estremo Oriente” per rivolgersi ai lettori interessati ai movimenti popolari nelle società moderne.

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