[LA RECENSIONE] L’eliminazione

Rithy Panh (con Christophe Bataille), L’eliminazione, Milano: Feltrinelli, 2014 (trad. it.).

 

1975. I Khmer Rossi prendono il potere a Phnom Penh. Inizia così uno dei regimi più feroci e spietati che la storia mondiale del XX secolo abbia conosciuto. Con l’obiettivo di generare l’uomo nuovo e di ridurre a due (operai e contadini) le classi sociali della Cambogia, inizia un’opera sistematica di deportazioni, torture, esecuzioni sommarie, atrocità di ogni tipo che provocherà la decimazione di un quarto della popolazione cambogiana (le stime parlano di almeno un milione e settecentomila morti, ma potrebbero essere stati molti di più). Guidati da Pol Pot (che morirà nella giungla nel 1998), i Khmer Rossi guidano la Kampuchea democratica fino al 1979, quando l’intervento militare del Vietnam porrà fine al regno del terrore. Nel 2006, un accordo tra Nazioni Unite e governo cambogiano dà vita a un tribunale misto contro i crimini commessi in quegli anni. La corte fino ad oggi ha condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità Kang Kek Iew (noto anche come compagno Duc, il direttore del famigerato campo di tortura e sterminio S-21), Nuon Chea (“Fratello numero 2”, il vice di Pol Pot), e l’ex capo di stato Kieu Shamphan. Nuon (morto in carcere nell’agosto 2019) e Kieu vengono condannati anche per genocidio contro il popolo vietnamita (Nuon anche per il genocidio della minoranza Chamm).

L’eliminazione è uno sguardo sull’agghiacciante realtà di quegli anni, attraverso gli occhi di un sopravvissuto, Rithy Panh, autore di due famosi documentari (S21. La macchina da morte dei Khmer Rossi e The Missing Picture, che vinse il premio della sezione “Un certain regarde” a Cannes nel 2013). Durante il processo a Duc, e le ricerche per il film S21, l’autore lo intervista a lungo, e questo libro alterna il racconto di questi incontri ai flashback della sua vita da adolescente (nel 1975 aveva 11 anni) nell’inferno cambogiano. Il ritmo è incalzante, i dialoghi con Duc sono serrati, le frasi brevi, alla ricerca della verità, al di là delle giustificazioni dell’interrogato. Rithy Panh non fa sconti, vuole conoscere, capire come un uomo possa avere fatto tutto questo – perché vuole che Duc rimanga ciò che è, un uomo. Non può essere derubricato a un pazzo, un demente, un’eccezione. L’autore accetta la visione di Arendt sulla banalità del male solo nell’accezione della burocratizzazione dei processi di sterminio, del suo diventare asettica “procedura”, ma il male banale non è. Mai: le sue “sono frasi umane” (p. 83). Tra il 1975 e il 1979 non è avvenuto il “suicidio di una nazione”, di per sé un evento eccezionale, ma in quei crimini “c’è l’uomo, l’uomo nella sua universalità, l’uomo nella sua interezza” (p. 87).

Dove risiede la responsabilità? Colpa dell’ideologia? Molti leader Khmer Rossi avevano studiato il marxismo in Francia: “Parliamo spesso dei libri di Marx, che Duch conosce e ammira. Io: “Monsieur Duch, chi è che aderisce meglio al marxismo?”. Duch: “Gli ignoranti”. Quelli che non leggono aderiscono “meglio” al marxismo. Sono il popolo in armi. Aggiungo io: obbediscono” (p. 25). L’ideologia non ammette repliche, non conosce sfumature: chi non l’accetta viene disumanizzato, e può essere tranquillamente eliminato. Colpa dell’utopia di una società tanto anticapitalista da fare a meno del denaro? “Lo scambio gratuito, come chiamano il baratto. Ma io non conosco uno scambio gratuito. Altrimenti si chiama dono. Ho vissuto quattro anni in una società senza moneta e non ho mai avuto l’impressione che questa assenza mitigasse le ingiustizie” (p. 37). Colpa della maledizione della violenza? “I massacri sono insiti nelle rivoluzioni. Quelli che reclamano il rovesciamento delle società lo sanno benissimo e non condannano mai la violenza. Il loro argomento è sempre lo stesso: solo la violenza può scacciare la violenza precedente. La violenza precedente era odiosa e crudele. La nuova violenza è pura e benefica: trasforma (per non dire trasfigura). Non è una violenza contro l’individuo, è un atto politico” (pp. 48-49). Colpa delle stramaledette élite che si ritengono depositarie della conoscenza e lasciano il popolo ignorante? “I due ufficiali si dicevano medici, ma non lo erano certo. Sempre con la solita idea che la pratica è tutto – ricavata dal Libretto Rosso: “Basta diplomi. Ci sono solo diplomi pratici”. Nuon Chea: “La verità arriverà grazie alla pratica”. Quando il popolo è libero, viene educato senza problemi. È l’imperialismo che mette barriere alla conoscenza” (p. 105). O è addirittura colpa del popolo? “Il popolo ha una pancia, che mangia il popolo – ma lui non lo sa” (p. 156). “Il popolo è una ruota idraulica. Il popolo è un’idea. È la realizzazione dei Lumi; la ragione universale all’opera o la loro fine?” (p. 172).

Panh non è tenero nemmeno con l’Occidente che l’ha pure accolto in terra di Francia, un Occidente che non ha né voluto né saputo vedere, o che ha giustificato (almeno in Europa) il regime Khmer in nome di un antiamericanismo tanto di moda quanto autoreferenziale, buono per soddisfare la propria coscienza politica à gauche ma non per comprendere l’atrocità di quanto stava accadendo in Cambogia: “agli intellettuali occidentali che hanno scritto odi e poemi, dazebao, saggi, libri o articoli entusiasti, e che ancora oggi, nel mondo democratico, aspirano a un nuovo comunismo, purificato, buono per i salotti da radical chic, dico: esiste solo l’uomo” (p. 83).
Risparmierò al lettore i particolari della lotta per la sopravvivenza che Panh descrive quasi fosse un rito catartico, in mezzo alla morte dei suoi cari, alle torture, all’odore delle fosse comuni, ai bambini morti di fame o indicibilmente per mano degli adulti, al cibo introvabile, al sistematico annientamento delle emozioni “borghesi”, ai lunghi esodi nella giungla o nei campi – ricordi che ancora gli turbano il sonno. Questo libro, in effetti, mentre dovrebbe essere inserito nei programmi scolastici (forse ancora troppo eurocentrici), non è da tenere sul comodino. O forse sì. Perché se il sonno della ragione genera mostri, come diceva Francisco Goya, l’insonnia è il prezzo giusto da pagare per rimanere vigili. Per non dimenticare così presto le lezioni del XX secolo e per evitare nuovi errori, magari in nome del popolo. Per scacciare il nemico dentro di noi. Per restare umani.

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