Mi chiamo Tofu. Sono una gattina nata randagia a Pechino, in un cortile di uno siheyuan, termine con cui i ren indicano le tradizionali abitazioni con la corte interna. Mi chiamo Tofu, la “saggissima” Tofu, come dice sempre Pallavi Aiyar, la mia padrona. Lei non è una ren qualsiasi, è stata corrispondente da Pechino per i quotidiani “The Hindu” e “The Indian Express”, e credo che proprio in Cina le sia venuta voglia di prendermi a modello e cucirmi addosso questa storia, che mi vede protagonista insieme a un gattino di nome Soia (sono sicura che per il suo personaggio si è ispirata al “fulvissimo” Caramello, l’altro gattino di casa).
Nella favola io e Soia (nato in una buona famiglia, lui!) finiamo nella casa di due waiguo ren, stranieri di non precisata nazionalità, Mr & Mrs A. I nostri padroni ci vogliono molto bene, ma non è facile vivere a contatto con i ren. Non tutti sono come il vecchio Zhao, che portava da mangiare a me e ai miei fratelli quando ancora vivevamo nel bidone della spazzatura. O come Nai Nai, con le sue frasi sagge che ti possono uscire dalla testa solo se sei una persona anziana (perché quando sei giovane, hai lasciato la povertà e hai un futuro davanti pensi alla carriera, no? Così come noi gatti vogliamo prendere il topo più grosso). Nai Nai diceva cose del tipo: “Che valore hanno i soldi se finiscono in un attimo?… Il sapere non finisce mai, la saggezza non si esaurisce. Riempi la testa invece del portafogli e non sarai mai derubato” (p. 18). Eh no, non tutti sono come il vecchio Zhao o Nai Nai: ci sono ren cattivi, come Xiao Xu e i suoi amici, da cui bisogna guardarsi: speculano sulla pelle altrui, non hanno più dignità. Senza parlare ovviamente di quelli che i gatti se li mangiano…
Mi fa piacere che questa favola stia avendo successo, perché all’inizio – sapete – non ero molto contenta, perché la padrona mi aveva fatto recitare la parte della gattina intelligente ma ingenua. Dapprima finisco in una retata ad opera di ren malvagi che non sopportano i cani e i gatti – pensano che portiamo in giro le malattie, figurarsi! – e poi contribuisco a fare di Soia l’eroe del nostro hutong. Ma i riflettori del palcoscenico, le interviste, i regali, persino i ringraziamenti del primo ministro (mi hanno detto che si chiama così quell’uomo con gli occhiali che ho visto in televisione) sono tutti per lui: se solo i ren sapessero che sono stata io a escogitare il piano per smascherare il grande inganno! Adesso sono più tranquilla, grazie al successo della fiaba anch’io sono nelle vetrine di tante librerie, e il mio nome è noto ai lettori di paesi lontani.
Quando ancora non ero entrata in questa storia, a volte mi capitava di sentire i ren raccontare ai loro piccoli Le favole di Fedro, e non ne capivo fino in fondo il senso. Ora invece tutto è più chiaro: quanto noi animali possiamo svelare della piccolezza dei ren! Scivoliamo di notte sui tetti come fa Da Ge, il mio fratellone. Ci acquattiamo nei cortili, con il rischio di rimanere chiusi fuori casa, se ne abbiamo trovata una che ci ospita. Così li osserviamo, e all’inizio ci spaventano: sono così minacciosi, così incombenti, molto più grandi e diversi da noi! Poi, quando cresciamo, ci abituiamo a conoscerli e ne ridimensioniamo la potenza; certo, possono sempre prenderti per il collo e portarsi via una delle nostre sette vite, ma i loro comportamenti sono a volte infantili e senza senso, come se loro – che di vite ne hanno solo una – dovessero vivere in eterno, signori dell’universo. Per fortuna queste cose Madam Wang le sa bene, e per questo ci difende – non fosse stato per il suo intervento, non so se il mio piano avrebbe avuto lo stesso successo.
La mia padrona è proprio brava a raccontare questa fiaba in cui siamo io e Soia le voci narranti: è come se non solo avesse imparato il nostro linguaggio – semplice nella struttura senza essere banale, ricco nelle sfumature senza essere barocco – ma anche fosse entrata in sintonia con questo nostro modo disincantato di guardare ai ren. Non vorrei che pensaste però che siamo cinici: vi ricorderò solo quando Ba, il papà di Soia, salta addosso a Xiao Xu – abbiamo anche noi i nostri ideali!
La nostra favola è poesia, tersa come una bella giornata di vento primaverile che per troppo tempo ha tardato il suo arrivo. Il senso di levità con cui la mia padrona dipana a poco a poco, come il filo del gomitolo di lana con cui non ho mai avuto la fortuna di giocare, la nostra storia, riempie di atmosfera le pagine. Se sapete riconoscere la bellezza, a tratti pascoliana (se conosco il poeta italiano Giovanni Pascoli? Suvvia, da quando siamo famosi a casa vengono recapitati libri da tutto il mondo) del libro, allora vorrete perdonare qualche mancanza di fantasia della mia padrona. Perché, ad esempio, tra tutti i posti che ci sono a Pechino, quando mi perdo finisco proprio nel cantiere di costruzione del “Nido”, il famoso stadio delle Olimpiadi del 2008? Forse per farmi conoscere i ren randagi, con cui mi sono trovata subito a mio agio, considerate le mie origini. Che cosa dite? Non ne siete sicuri? Non è questo che vi fa sorridere? Ah, ho capito, volete proprio che ne parli, speravo vi fosse sfuggito. D’accordo, citare artatamente il detto di Deng Xiaoping “gatto nero gatto bianco” non è una mossa azzeccata in un libro che ha due gatti come protagonisti, ma che volete che vi dica? Quando me ne accorsi (la padrona era andata a prepararsi un caffè), non feci in tempo a pigiare il tasto “canc” su quel marchingegno che i ren usano per scrivere, sperando che al suo ritorno non si accorgesse della correzione. Io di questo non ho colpa, e confido che la mia irresistibile avventura, condivisa con Soia dall’inizio alla fine, sia per voi un motivo sufficiente per stare qualche ora in nostra compagnia. Ora vado perché la padrona ha preparato la pappa – quella buona, s’intende…
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