Davor Antonucci, Serena Zuccheri L’insegnamento del cinese in Italia tra passato e presente, 意大利汉语教学目前情况和历史背景 traduzione in cinese di Yu Qi, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2010
Il 9 giugno 1870, durante un banchetto a Firenze in onore della prima missione diplomatica cinese in Italia, fu chiesto ad Antelmo Severini (1828-1909), professore universitario a cui nel 1864 l’università di quella città aveva affidato la prima cattedra di lingue dell’Estremo Oriente, di salutare gli ospiti nella loro lingua madre. Narra la leggenda di come alla fine del discorso il capo della delegazione imperiale facesse piacevolmente notare le sorprendenti assonanze dell’italiano con il cinese mandarino… Non è dato sapere se si tratti di una vicenda reale o apocrifa (non vi è alcuna traccia negli archivi), ma l’episodio ricorda la difficoltà dei pochi sinologi italiani del XIX secolo nel confrontarsi con l’uso della lingua cinese: sarà solamente a fine Ottocento che, in seguito all’unificazione dello stato italiano e all’instaurazione di rapporti diplomatici con la corte imperiale di Pechino, sarà possibile per gli studiosi italiani soggiornare in Cina per un tempo sufficientemente lungo, approfondendo gli studi linguistici e culturali.
Il libro che OrizzonteCina segnala questo mese, pubblicato nel 2010 ma di recente portato all’attenzione della nostra redazione, mostra quanta strada sia stata percorsa da allora nell’insegnamento della lingua cinese in Italia e – in ciò rappresentando una vera novità – offre un dettagliato elenco di tutti i corsi di lingua cinese attivati negli atenei nostrani, mettendo in luce il contesto storico della loro attivazione, evoluzione e titolarità. Nel capitolo di Serena Zuccheri si parte da lontano con il ricordo dell’italo-tedesco Giuseppe Hager (1757-1819), a cui l’Università di Pavia affidò un corso di cinese nel 1806, e si attraversa il secolo con le figure di spicco che a poco a poco, spesso dopo un soggiorno al College de France a Parigi – istituto all’epoca all’avanguardia dello studio delle lingue extra-europee – diffusero l’insegnamento del mandarino nel resto del paese, da Pisa a Firenze, da Napoli a Roma. Particolare spazio è dedicato a queste due città: nella prima, zelo missionario e curiosità intellettuale si erano combinati nel 1732 per dare vita al Collegio dei Cinesi, che si trasformò nel Real Collegio Asiatico (1868), assumendo quindi il nome di Regio Istituto Orientale (1888): ancora oggi, l’Istituto Universitario Orientale è un faro per gli studi linguistici e di area; nella seconda, i sinologi dell’università furono parte attiva nella costituzione nel 1926 – sostenuta finanziariamente anche dal governo cinese – dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO). Figura straordinaria di riferimento dell’istituto negli anni del secondo dopoguerra fu Giuseppe Tucci (1894- 1984), uno dei più grandi orientalisti italiani di sempre, appassionato esploratore di usi, costumi, religioni e filosofie, soprattutto dell’altopiano tibetano.
L’autarchia intellettuale del fascismo pose fine al dinamismo degli studi cinesi, tanto che Zuccheri ricorda come alla fine della guerra Pasquale D’Elia (1890-1963) fosse l’unico docente universitario di lingua cinese rimasto in Italia, con l’arduo compito di ristabilire una tradizione sinologica italiana e rilanciare gli studi delle lingue orientali. Complice l’ascesa economica cinese degli ultimi trent’anni, oggi l’obiettivo si può dire raggiunto: dalla lettura del capitolo di Davor Antonucci scopriamo che nel 2010 sono attivi corsi universitari di lingua cinese in quasi tutte le regioni italiane (con l’eccezione di Val D’Aosta, Liguria e Basilicata). A tale rinnovato impulso ha dato un contributo fondamentale l’Università degli Studi di Venezia “Ca’ Foscari”, tanto da diventare negli anni un chiaro punto di riferimento per la sinologia italiana: nel 1965 vi venne istituita la cattedra di “lingua e letteratura cinese” all’interno del nuovo corso di laurea in lingue e letterature orientali. Dagli anni ’80, anche le Università di Milano e di Torino iniziarono a investire sugli insegnamenti di lingua cinese.
Non più solamente Roma, Napoli e Venezia, quindi, e non più solamente nelle università: l’ultimo paragrafo del libro dà conto della recente ma dinamica storia dell’insegnamento del cinese nelle scuole superiori. Soprattutto in Lombardia e in Veneto le autorità scolastiche sono promotrici di progetti – che ormai suonerebbe datato definire “pilota” – per diffondere il cinese nei licei. Si tratta di vedere se i continui tagli all’istruzione permettano in ogni caso di tenere viva la rinnovata attenzione all’insegnamento del cinese alle nuove generazioni. È un impegno che dovremo sostenere, perché ai più giovani spetterà l’ardua impresa di contribuire a fare conoscere agli italiani, superandone i pregiudizi, la realtà di un paese il cui peso economico nel contesto mondiale influenza ormai la nostra vita quotidiana.
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