“Suoni lunghi di campane tibetane a valle/svegliavano al mattino i falegnami del paese;/temporali estivi con lenzuole appese./Nell’aria qualche cosa si fermò”. Così cantava Franco Battiato nel 1983 in “Cam- pane tibetane”, una canzone idilliaca, nostalgica, che profuma di tempo antico, in un’atmosfera bucolica, rarefatta, evidenza di un’arcadia montana sospesa nel vento, proprio come appare il Tibet nell’immaginario occidentale: paradiso perduto, mitico Shangri-La, riflesso dell’età d’oro dell’umanità, in cui pace armonia e benessere regnavano sovrani, nella pace eterna dei sensi, ciascuno consapevole della transitorietà della vita. Peccato che queste campane non esistano nei monasteri tibetani, ma siano “semplici ciotole in ottone realizzate in Nepal, originariamente utilizzate come stoviglie” che – se sfregate con un battente – producono un piacevole suono, di cui si accorse per primo “un mercante nepalese che intorno agli anni Settanta iniziò a vendere queste ciotole sul mercato turistico spacciandole per ‘campane tibetane’, attribuendo loro una funzione strumentale per la meditazione” (pp. 329-330).
Basterebbe la contrapposizione tra la canzone del cantautore siciliano e la citazione da Nel paese delle nevi per comprendere il prezioso valore scientifico di questo saggio storico, dedicato alla storia culturale del Tibet dal VII al XXI secolo. Il libro di Chiara Bellini riporta – per così dire – il Tibet sulla Terra, inserendone le vicende – spesso spietate – all’interno della più ampia vicenda umana, fatta di splendori e di miserie, di pace e di guerra, di grandi leader spirituali e di meschini cortigiani, di ascetismo e corruzione morale, di lotte intestine e di invasioni imperiali. Mentre “tutto ciò che viene accostato alla parola ‘Tibet’ immediatamente assume un’aura trascendente e mistica” (p. 330), l’approfondimento della sua storia rivela come “il Tibet e la sua civiltà non sono dissimili da tutte le altre del mondo” (p. xxiv). Andare al di là del mito, quindi, per l’autrice, significa non solo compiere un’operazione di verità, ma anche – richiamandosi all’opera di Donald Lopez Prigionieri di Shangri-La – rendere giustizia alla stessa filosofia dei diritti dell’uomo e della tutela delle minoranze, che prevede la protezione dell’individuo in quanto tale, e non perché appartiene a “un popolo paci co e puro” (p. 331).
Il controverso rapporto del Tibet con la civiltà cinese è presente fin dagli albori della storia tibetana, quando nel VII secolo i capitribù della valle del ume Yarlung Tsangpo (chiamato in India Brahmaputra) scelsero un re, che presto si trovò a governare un regno in espansione, in grado di minacciare la Cina della dinastia Tang. Come avvenne spesso nella storia europea, la politica matrimoniale diventava strumento per rendersi amico un difficile nemico: “Su questo dovettero ri ette- re alla corte cinese quando, al sempre più potente sovrano tibetano Songsten Gampo, fu offerta in sposa, nel 640, la principessa cinese Wencheng”, che paradossalmente, considerati gli sviluppi della storia tibetana nel XX secolo, ebbe “un ruolo fondamentale nella di usione del buddhismo in Tibet” (p. 11). Durante tutta la dinastia Yarlung (VII-IX secolo) il Tibet si espanse a ovest verso lo Xinjiang, incorporando la città di Kashgar e tagliando alla Cina le lucrose rotte commerciali sulla via della seta, e a est verso il Gansu, il Sichuan, lo Yunnan e lo Shanxi, lam- bendo Kunming, Chengdu e Xi’an (conquistata per un breve periodo nel 763, quando i tibetani addirittura insediarono un imperatore fantoccio). Cina, Tibet e mondo arabo si scontrarono anche per il controllo in Asia centrale della strategica valle di Ferghana, che nel 751 cadde in mano del cali o di Baghdad, grazie alla vittoria del governatore di Samarcanda contro i cinesi nella battaglia di Talas. Con gli accordi di pace dell’821-23 con la Cina iniziò la graduale disgregazione dell’impero tibetano, che aveva però creato nel frattempo “un’unica sfera di civilizzazione, che geograficamente comprendeva l’altipiano tibetano ma che si estendeva molto oltre” (p. 30), lasciando tracce ancora ai giorni nostri nelle province cinesi a est della regione autonoma tibetana propriamente detta. Nel 1207 il Tibet, ormai governato dal clero, divenne uno stato tributario dei mongoli, che nel 1212 conquistarono Pechino, dando inizio alla dinastia cinese degli Yuan. Con l’ascesa dei Ming, i regni tibetani vissero un periodo di indipendenza sostanziale, caratterizzato da forti legami commerciali e culturali con la corte imperiale (anche se il legame tributario non venne mai messo in discussione), ma anche da solidi rapporti con i Khan mongoli.
Qualche secolo dopo, il “Grande gioco” in Asia centrale – stavolta tra la Russia, la Cina dei Qing e l’Impero britannico – avrebbe nuovamente investito il Tibet, in cui nel frattempo (XVII secolo) si era imposta l’egemonia dei Dalai Lama, istituendo nel paese una vera e propria teocrazia presto divenuta – con variabile intensità – un protettorato mancese. Con l’invasione inglese del 1903, quella mancese del 1910, e il ritorno del Dalai Lama a Lhasa nel 1912, il tragico XX secolo diede il benvenuto al Tibet, che sarebbe rimasto di fatto indipendente dal 1911 al 1951. Il resto è storia recente: l’ingresso delle truppe della Repubblica popolare cinese, la devastazione delle guardie rosse, e la fuga del XIV Dalai Lama, in un quadro reso assai più complicato dalla presenza di un governo tibetano in esilio in India che rende la richiesta del Dalai Lama – idolo del “terzo Tibet”, quello dell’immaginario occidentale – di maggiore autonomia (ma non di indipendenza) della minoranza tibetana in Cina assai poco credibile agli occhi del governo centrale cinese.
Nel paese delle nevi, completato da un ricco apparato iconografico a colori, ha il merito di ricondurre a unità – attraverso il buddhismo – la storia religiosa, politica, economica e culturale del Tibet. In un mondo in cui la religione è tornata prepotentemente alla ribalta della politica e delle relazioni internazionali, per superare le incomprensioni e i conflitti generati dall’incontro delle società tradizionali con la modernità occorre forse ripartire da qui, accettando da un lato che il “buon tempo antico” e il paradiso bucolico non sono mai veramente esistiti, ma riconoscendo dall’altro la profonda verità – se mi è consentito attingere a un’altra sapienza spirituale – che “non di solo pane vive l’uomo”, e che quanto più si cerca di reprimere il sentimento religioso (e di rifiutare la convivenza delle diversità), tanto più esso – in forme di fanatismo – agiterà i nostri tempi già inquieti.
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