Il 28 gennaio 2018 i rappresentanti di undici stati guidati da Giappone e Australia hanno raggiunto l’accordo su una nuova versione del Partenariato Trans-Pacifico (TPP). Il nuovo patto, denominato Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTTP) o TPP 11, entrerà in vigore con la ratifica di minimo sei stati membri, evento che verosimilmente si concretizzerà nel 2019. Il CPTTP rappresenta un grande risultato dopo che l’elezione di Donald Trump sembrava aver irrimediabilmente decretato la fine dell’accordo.
Per dare attuazione alle promesse della sua campagna elettorale xenofoba di un’America unilaterale, Trump ha firmato un ordine esecutivo per ritirare gli Stati Uniti dall’accordo entro cento ore dal suo giuramento, cancellando con un colpo di penna dieci anni di negoziati per creare la cosiddetta via Pacifica all’integrazione commerciale regionale ancorata al mercato statunitense. La decisione è andata contro i numerosi studi che avevano dimostrato come il TPP avrebbe portato benefici all’economia statunitense e ha creato subbuglio tra i rimanenti undici firmatari.
L’incertezza pertinente il commercio è solo una delle sfide che attualmente minacciano di stravolgere l’ordine economico e di sicurezza che ha caratterizzato l’Asia-Pacifico dall’inizio degli anni ’80 fino a pochi anni fa. Per circa trent’anni l’ordine regionale è stato caratterizzato innanzitutto da una crescente interdipendenza economica, dall’emergere di istituzioni multilaterali e dall’assenza di conflitti militari tra stati. Tale processo non è stato privo di ostacoli e sfide, ma non ha mai dovuto affrontare una minaccia alla stabilità economica e militare dell’entità di quella che sta emergendo ora con il ritiro statunitense dalla regione deciso da Trump.
Il TPP era l’accordo commerciale regionale più ambizioso disegnato per promuovere il libero commercio superando lo stallo dei negoziati sul commercio globale del Doha Round. Con gli sviluppi avvenuti dal 2016, l’accordo prometteva cambiamenti di grande portata all’attuale regime commerciale principalmente in quattro modi. Innanzitutto, essendo l’accordo regionale commerciale più ampio e ambizioso mai concluso dagli Stati Uniti, era l’architrave della strategia multidimensionale lanciata dall’amministrazione Obama per riposizionare il Paese verso l’Asia, il cosiddetto “Pivot to Asia”. In secondo luogo, il TPP ha rappresentato una significativa inversione di tendenza da parte di molti Paesi asiatici contro il tradizionale protezionismo. In terzo luogo, l’accordo prometteva standard molto elevati e ambiziosi, nonostante la possibile ambiguità dei termini utilizzati per esprimere tale obiettivo[1], ed era concepito per andare oltre i confini in modo più efficace rispetto alle tradizionali riduzioni tariffarie. Infine, elemento spesso trascurato dai media, il TPP avrebbe toccato molti interessi geo-strategici degli stati firmatari: l’esclusione esplicita della Cina aveva convinto gli Stati Uniti e la gran parte dei membri che l’accordo avrebbe portato anche benefici nel campo della sicurezza. Attraverso queste direttrici, il TPP si prospettava come un veicolo tramite il quale partner commerciali asiatici di primo piano avrebbero potuto mantenere stretti legami economici e militari con Washington e simultaneamente favorire l’ordine globale liberale nella regione.
L’amministrazione Obama era entrata in carica convinta che le guerre in Iraq e Afghanistan fossero state erroneamente focalizzate su minacce non esistenziali e che non avessero solo avuto un costo elevato in termini economici, ma anche spostato l’attenzione dei decisori dall’Asia-Pacifico, più rilevante sia sotto il profilo strategico, sia sotto quello economico. L’Asia, infatti, è diventata il peso massimo economico a livello globale con il 60% del PIL mondiale e quasi il 50% del commercio internazionale. Gli Stati Uniti trarrebbero quindi grandi vantaggi assumendo il ruolo di leader nella configurazione del più importante schema commerciale della regione. Come ha scritto l’ex Presidente Obama sul Washington Post difendendo il TPP: “Il mondo è cambiato. Le regole lo stanno cambiando. Gli Stati Uniti, e non Paesi come la Cina, dovrebbero scriverle. Dobbiamo cogliere quest’opportunità, approvare il Partenariato Trans-Pacifico e assicurarci che l’America non tenga la borsa, ma la penna”.
Di conseguenza, ciò che si stava affermando come un fulgido progresso dell’ordine liberale in Asia-Pacifico è stato spazzato via dall’elezione di Donald Trump e dal suo impegno a distruggere tutte le vestigia dell’amministrazione Obama. L’antagonismo verso l’ordine liberale globale, rappresentato tra gli altri dal TPP, è stato un elemento chiave della sua vigorosa campagna elettorale improntata a un populismo nativista. Elemento centrale di tale avversione sono stati i disavanzi commerciali bilaterali dipinti da Trump in termini manichei tramite l’equazione secondo la quale gli Stati Uniti “vincono” quando le loro esportazioni verso ogni singolo Paese eccedono le importazioni da quest’ultimo, ma che in caso contrario gli Stati Uniti “perdono”. All’interno di tale visione, dal momento che la bilancia commerciale degli Stati Uniti è da tempo in negativo con la maggior parte dei Paesi (nonostante ciò sia valido per i beni, ma spesso non per i servizi – una differenza convenientemente ignorata da Trump e dai suoi sostenitori), il sistema commerciale globale così come organizzato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e da gran parte degli accordi commerciali come l’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA), l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud (KORUS) e il TPP, stavano congiuntamente “sfruttando gli Stati Uniti”. La soluzione di Trump consiste nel reclamare un “accordo migliore” sfidando tutti gli accordi multilaterali e/o rimpiazzandoli con nuovi accordi commerciali bilaterali. A marzo 2018 Trump si è spinto fino a rischiare una guerra commerciale globale imponendo unilateralmente tariffe su acciaio e alluminio, presumibilmente nella convinzione che ciò avrebbe forzato vari partner commerciali a rettificare il loro commercio “sbilanciato” avviando negoziati bilaterali.
Il nazionalismo populista spiega anche l’assenza di un’analisi articolata di politica estera sull’Asia-Pacifico come priorità geografica. Dopo diciotto mesi di governo centinaia di posizioni amministrative chiave nel corpo diplomatico e negli affari esteri sono ancora scoperte, inclusi ruoli di primaria importanza afferenti all’Asia orientale, e il budget del Dipartimento di Stato è stato tagliato. La decisione di ritirare gli Stati Uniti dal TPP va quindi vista solo come una specifica misura commerciale all’interno del più generale auto-isolazionismo dalla regione.
I Paesi europei stanno lottando per creare una strategia collettiva che preservi l’ordine commerciale globale di fronte all’unilateralismo e all’isolazionismo statunitensi. Dall’altro lato del globo, gli undici firmatari rimasti del TPP stanno cercando di sostenere l’ordine commerciale liberale in Asia-Pacifico. Non è chiaro se riusciranno a resistere al protezionismo statunitense fino a che una nuova amministrazione possa riaffermare la tradizionale prospettiva globale, o se i danni dell’amministrazione Trump saranno irreparabili. Al momento, tuttavia, la collaborazione all’interno del TPP 11 è la migliore speranza per l’Asia orientale di preservare l’ordine commerciale globale.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini
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[1] “High quality, ambitious 21st Century standards”.
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