La sfida marittima tra USA e Cina

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

Sono passati due anni da quando il presidente Obama ha annunciato il “pivot to Asia” della politica estera e di sicurezza statunitense, un deciso ribilanciamento delle risorse economiche, diplomatiche e militari di Washington verso l’Asia per gestire al meglio sia i rapporti con i propri alleati, che quelli sempre più vitali con Pechino. Finora, gli Stati Uniti si sono affidati a una combinazione di engagement, cercando di rafforzare la cooperazione con la Cina a tutti i livelli, e containment mitigato, garantendo assistenza militare ai propri alleati attraverso forti dichiarazioni pubbliche, la fornitura di mezzi e l’attuazione di esercitazioni congiunte. Questo precario equilibrio però è sempre più frequentemente messo in pericolo dalla crescente attività navale cinese nel Mar cinese orientale e in quello orientale.

Robert Ross, professore di scienza politica al Boston College e associato del John King Fairbank Center for Chinese Studies dell’Università di Harvard, e Yu Tiejun, professore associato della Scuola di studi internazionali dell’Università di Pechino, hanno affrontato questo tema durante il più recente evento di ThinkInChina.

Secondo Ross, per capire il significato e le ripercussioni delle manovre della Marina dell’Esercito popolare di liberazione, è necessario chiedersi a quale stadio di sviluppo essa si trovi e se la Cina veda se stessa come potenza terrestre o potenza marittima. Sono gli stessi interrogativi cui Ross aveva provato a dare una risposta nel 1999 nel libro scritto insieme ad Andrew J. Nathan “The Great Wall and the Empty Fortress”, e poi nel 2009 con l’influente articolo “China’s Naval Nationalism Sources, Prospects, and the U.S. Response”. Secondo Ross “negli ultimi 50 anni la Marina militare cinese non ha messo in campo mezzi che pongano una minaccia significativa a quella statunitense”. Nonostante la Cina possa contare su vari sistemi d’arma per negare a navi ostili l’accesso ai mari prossimi alle coste cinesi, la Marina militare cinese da sola non dispone di forze sufficienti a indebolire il controllo americano dell’Oceano Pacifico. Tuttavia, la sua espansione e modernizzazione destano grande preoccupazione fra gli alleati asiatici degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il futuro, sono due i fattori che giocano contro la trasformazione della Cina in una potenza marittima. Il primo è l’aspetto economico e tecnico di questa trasformazione: lo sviluppo e il mantenimento di una forza navale moderna sono estremamente onerosi sia in termini economici, sia per il tempo necessario ad acquisire le competenze tecnologiche desiderate. Il secondo fattore è dato da un contesto regionale molto complesso. Innanzitutto, i lunghi confini con alcuni stati instabili e/o dotati di armi nucleari continuano a impedire agli strateghi cinesi di dedicarsi completamente alla realizzazione delle loro ambizioni marittime. In secondo luogo, le forze armate dei paesi asiatici alleati degli Stati Uniti possono contare fin dagli anni Novanta sulla più sofisticata produzione militare statunitense. Per esempio, per lo schieramento dei primi caccia F-22 gli Stati Uniti hanno dato la precedenza a questa regione e lo stesso avverrà con i nuovi incrociatori Zumwalt. Come sostenuto anche da Edward Luttwak in “The Rise of China vs. the Logic of Strategy”, se la Cina compisse una mossa sbagliata rischierebbe di spingere anche i paesi meno filoamericani a schierarsi dalla parte di Washington, rendendo così reale l’accerchiamento che Pechino ha sempre temuto.

Per Ross, inoltre, il governo cinese vede nella costruzione di una potente marina militare il raggiungimento di uno status symbol, più che una risposta a precise esigenze strategiche. Questa mancanza di obiettivi precisi, potrebbe essere determinante nell’impedire alla Cina di risolvere i due problemi descritti sopra. Date queste difficoltà da parte cinese e l’imperativo condiviso sia da Cina che Stati Uniti di evitare il confronto diretto, il rischio di conflitto – anche in caso di coinvolgimento di un alleato americano – rimane piuttosto basso. Anche nel caso in cui si verificasse, esso sarebbe su scala limitata e per un breve periodo di tempo.

Un’interpretazione diversa da quella di Ross viene fornita da altri due noti studiosi di strategia navale, James R. Holmes e Toshi Yoshihara dello US Naval War College, secondo i quali Pechino sta attuando una strategia “small-stick” nei confronti dei propri vicini marittimi. Tale strategia consiste nella minaccia di utilizzo (o nell’uso effettivo) della propria Marina militare o delle agenzie civili per il controllo marittimo contro i vicini più deboli per imporre una propria egemonia regionale. Questa strategia non solo mette sotto pressione il sistema di alleanze statunitense, ma nel lungo periodo pone una sfida diretta alla supremazia delle forze americane presenti in Asia.

Al contrario di quanto sostenuto da Ross, secondo Yu il rischio che si verifichi un serio confronto militare fra la Cina e gli Stati Uniti, o i paesi loro alleati, è reale. Il motivo sarebbe la mancanza di un sistema regionale per la gestione degli incidenti fra marine di nazioni diverse. Ad esempio, se si ripetesse un incidente come quello del febbraio 2013, quando una fregata cinese aveva agganciato con i propri dispositivi di puntamento radar un incrociatore giapponese, un esito pacifico non sarebbe scontato. Gli incontri tenutisi in passato fra Cina e Giappone per discutere di come gestire situazioni simili si sono rivelati inconcludenti. Le recenti e tanto criticate visite del primo ministro giapponese Shinzo Abe al sacrario di Yasukuni e il continuo diniego dell’esistenza di una disputa con la Cina, sono altri elementi che non agevolano i necessari contatti di alto livello tra Pechino e Tokyo.

Inoltre la Rpc, attraverso dure dichiarazioni e movimenti militari in reazione a quelle che vengono percepite come provocazioni giapponesi, potrebbe aver contribuito all’ulteriore polarizzazione delle tensioni con il paese vicino.

In teoria, questo genere di incidenti dovrebbe essere interpretato alla luce di un nuovo modello di relazioni fra grandi potenze. Secondo questo modello, proposto da Xi Jinping, Cina e Stati Uniti dovrebbero continuare a cooperare il più possibile senza cadere nella trappola di Tucidide, cioè senza farsi condizionare dalla diffidenza tipica dei rapporti fra potenze rivali. Nonostante la traduzione in pratica di questo concetto sia tutt’altro che facile, Yu non è pessimista sul futuro delle relazioni fra Cina e Stati Uniti. Con interessi comuni non solo in Asia – che comunque rimane l’area di maggior interesse – ma anche in altre regioni del globo, la spinta verso una maggiore cooperazione fra le due potenze dovrebbe essere più che sufficiente ad assicurare la stabilità dei rapporti bilaterali.

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