Dopo più di quattro anni di regime militare la Thailandia si avvia, seppure a passi titubanti, verso nuove elezioni. La continua promessa di tornare al voto ha accompagnato il periodo di dittatura più lungo della storia thailandese degli ultimi cinquant’anni: inizialmente fissate per l’autunno 2015, le elezioni sono state dapprima posticipate fino a novembre 2018, poi ulteriormente ritardate al 24 febbraio 2019, con assicurazioni che al più tardi slitteranno al 5 maggio 2019. Nonostante i continui rinvii il ritorno alle urne sembra questa volta effettivamente all’orizzonte. I nuovi partiti corrono sul posto, pronti per lo sprint[1]; i vecchi partiti maggioritari si sgranchiscono le gambe, con la calma dei corridori esperti.[2] A un primo sguardo, quella che stanno preparando sembra una corsa storica: il ritorno alla “normalità” democratica per un Paese che sin dagli anni Novanta è stato il capofila del processo di democratizzazione del Sud-est asiatico. Eppure, le prospettive appaiono ricche di incognite e tale scenario tutt’altro che scontato.
Il 22 maggio 2014, il comandante in capo dell’esercito thailandese, Generale Prayut Chan-Ocha, ha preso il potere con un colpo di stato che ha posto fine a più di una decade di mobilitazioni popolari che hanno visto movimenti sociali (sia progressisti sia conservatori) opporsi a forze governative, governi eletti rimossi da giudici costituzionali, interventi militari, e accuse di corruzione scagliate da tutti contro tutti. In un primo momento il colpo di stato era sembrato una ripetizione del golpe del 2006. Allora, la giunta militare era rimasta al potere per pochi mesi per traghettare il Paese verso un governo provvisorio guidato da Surayud Chulanont, un ex-generale vicino alla casa reale. Il passo successivo era stato una nuova costituzione che conferiva maggiori poteri a istituzioni indipendenti che avrebbero dovuto limitare lo strapotere dei governi eletti. Le elezioni, svoltesi nel giro di un anno, avevano restituito le chiavi del Paese alla stessa parte politica che lo aveva governato in precedenza. Nel 2014, quando il Generale Prayut ha preso il potere, molti si aspettavano una ripetizione dello stesso copione, ma tali aspettative sono state presto contraddette.
Sin dai primi mesi, Prayut ha dimostrato di non volersi accontentare del ruolo di traghettatore, ma di essere interessato a una presa di potere più profonda e duratura – una stretta autoritaria che la Thailandia non vedeva dagli anni Settanta. I primi due anni del governo Prayut sono stati caratterizzati dall’accentramento dei ruoli istituzionali (quindici cariche incluse le posizioni di Primo Ministro, Capo della Giunta Militare e Capo dell’Esercito[3]), e da una forte repressione di voci critiche e di qualsiasi forma di dissenso (con più di 2500 persone arrestate e trattenute). Sebbene tutto questo avesse cominciato a rivelare le caratteristiche del nuovo autoritarismo thailandese, la costituzione promulgata dal governo militare e ratificata tramite un referendum blindato nell’agosto del 2016, le ha consolidate in un documento senza precedenti, che permetterà la formazione di governi senza potere reale come spiegato nel paragrafo seguente.[4]
Autoritarismo costituzionale
La nuova costituzione thailandese, ufficialmente firmata dal nuovo Re Vajiralongkorn il 17 Aprile 2017, è la ventesima dalla fine della monarchia assoluta nel 1932. La nuova carta costituzionale prevede un cambiamento radicale del modello elettorale con l’introduzione di misure volte a favorire i partiti di piccole e medie dimensioni e rendere molto difficile per i partiti vicini alla famiglia Shinawatra ripetere gli indiscutibili successi elettorali ottenuti in tutte le tornate elettorali dal 2001. Se anche un partito riuscisse a ottenere la maggioranza alla camera, questo non si tradurrà necessariamente nella possibilità di creare un governo. Il senato, infatti, secondo la nuova costituzione, sarà interamente non eletto: per una metà selezionato direttamente dai militari e per l’altra da una serie di forze sociali tra cui la casa reale, settori statali, e organizzazioni non governative tradizionalmente conservatrici. Un mandato elettorale forte, perciò, sarebbe vissuto come una minaccia al potere del senato e incentiverebbe i suoi rappresentanti a ostacolare la creazione di un governo.[5] La nuova carta costituzionale, in altre parole, crea i presupposti per un’impasse istituzionale ma fornisce anche una via d’uscita, quella preferita dalle forze conservatrici negli ultimi cinquant’anni: la creazione, dopo il voto, di un governo diretto da una figura a loro vicina che, dietro l’apparenza di un voto democratico, attui politiche conservatrici, blocchi ogni tentativo di de-centralizzazione,[6] inibisca l’espansione dello stato sociale a sezioni più povere (e periferiche) della popolazione thailandese, e mantenga il budget dei militari in continua espansione.[7]
Questa soluzione è resa pressoché certa da due sezioni della nuova carta costituzionale: la prima prevede la possibilità di avere un primo ministro che non sia stato eletto in parlamento; la seconda crea una commissione, “l’assemblea nazionale della morale,” che ha il compito di vagliare i nominativi dei candidati premier che ogni partito dovrà presentare prima delle elezioni e il diritto di rigettare queste candidature nel caso ritenga queste persone “moralmente inadatte” a guidare il Paese. Inoltre, se anche un candidato con sostegno popolare riuscisse a ottenere più del 50% dei voti alla camera, a strappare qualche voto al senato, e a essere ratificato dall’assemblea nazionale della morale, la carta rende molto più facile l’avvio di una procedura di impeachment da parte della corte costituzionale nel caso in cui il leader civile promulgasse leggi considerate contro la sicurezza nazionale, che viene intesa in maniera talmente estesa da includere politiche economiche avverse al volere dei militari e riforme sociali ritenute nocive all’interesse del Paese. In altre parole, quella che sta emergendo in Thailandia è una nuova forma di autoritarismo costituzionale che potrebbe servire a rendere accettabile internazionalmente un governo così creato, ma lascerebbe di fatto il potere nelle mani dei militari.
La crescita dell’autoritarismo in Asia orientale e nel Sud-est asiatico e il ruolo della classe media in Thailandia
Nel 1848, Karl Marx apriva il suo manifesto con una frase eloquente: “uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo.”[8] Centosettant’anni dopo, il comunismo che si era materializzato in Asia orientale è poco più di un fantasma sbiadito, che non perseguita più nessuno. Al suo posto un altro spettro si aggira in quelle terre: lo spettro dell’autoritarismo costituzionale[9]. Gli eventi che si stanno delineando in Thailandia non sono isolati. Al contrario, si inseriscono in un trend più ampio che sta spingendo l’Asia orientale verso forme di radicalizzazione autoritaria, sia nei Paesi precedentemente democratici sia in quelli già abituati a sistemi mono-partitici. Che si tratti del tentativo di Xi Jinping di trasformare la sua presidenza in una carica a vita, del sistematico rifiuto di applicare l’habeas corpus da parte di Duterte nelle Filippine o delle nuove forme di dittatura costituzionale in Thailandia, un nuovo vento di autoritarismo soffia sull’Asia orientale. Sebbene momenti come questi non siano nuovi in quest’area del mondo, una novità è particolarmente significativa. Contrariamente alle teorie della “fine della storia” o della “transizione democratica,”[10] questo vento non spinge contro la volontà delle classi medie ma è da esse sostenuto, e non sembra essere una brezza temporanea, destinata a spegnersi, piuttosto un vento stabile, che gonfia le vele di un nuovo sistema di governance.
Molto è stato scritto sulla relazione tra queste nuove forme di autoritarismo e i cambiamenti geopolitici che vedono Cina e Stati Uniti sempre più vicini a una guerra di influenza, per ora solamente commerciale e a livello diplomatico.[11] Tuttavia, le spiegazioni presenti finora in letteratura, sebbene importanti e significative, ignorano un elemento centrale di questo nuovo autoritarismo: la crescente popolarità dell’ideologia autoritaria tra le classi medie,[12] una popolarità che trova le sue radici nel cambiamento di significato a livello locale di parole d’ordine tradizionali dei processi di democratizzazione degli anni Novanta, in particolare corruzione e stato di diritto. La Thailandia, come tutto il Sud-est asiatico, è stata attraversata in quel decennio da rivolte popolari capitanate dalle classi medie, volte a porre fine a governi dispotici, spesso usando la loro corruzione come arma di mobilitazione popolare. Durante l’ultimo decennio, però, il significato della parola corruzione tra le classi medie thailandesi ha subito una radicale trasformazione.[13] Corruzione oggi non si riferisce più solamente a chi abusa del proprio ruolo pubblico per scopi privati. L’universo semantico della parola si è espanso fino a comprendere tre significati. In primo luogo, l’idea tradizionale di corruzione come sfruttamento della propria posizione per accumulare potere e ricchezza. In secondo luogo, si è affermata una nuova concezione di intrinseca corruzione morale della persona, il tipo di corruzione che la nuova assemblea nazionale della morale dovrebbe prevenire. Infine, è emersa una visione del tutto nuova della cosiddetta “corruzione elettorale” che interpreta ogni forma di politica redistributiva come una compravendita di voti, operata da parte dei partiti democratici nei confronti dell’elettorato. Secondo questa concezione tri-partita della corruzione, le elezioni stesse sono diventate agli occhi di intere sezioni della classe media una pratica corrotta che favorisce leader populisti i quali, attraverso politiche redistributive, ottengono il sostegno popolare senza necessariamente produrre “buon governo”.
Questi cambiamenti semantici possono sembrare puro sofisma e di scarsa portata politica, eppure senza comprendere queste trasformazioni si fa fatica ad accettare come sia possibile che le stesse classi sociali che nel 1992 si battevano in strada contro le pallottole dei militari rischiando la vita per avere nuove elezioni oggi appaiano soddisfatte di vivere sotto la dittatura di Prayut. Chiaramente, anche se assumono forme specifiche in contesti diversi, tutte queste trasformazioni non accadono in un vuoto internazionale. Le precedenti fasi autoritarie in Thailandia — in particolare nel periodo tra il 1945 e il 1992 — erano state sostenute, sia economicamente sia ideologicamente, dagli Stati Uniti e dalla loro retorica anticomunista. Dal colpo di stato del 2014, la giunta si è rivolta alla Cina per un simile supporto. L’avvicinamento tra i due governi è stato ovviamente il risultato di mutevoli alleanze politiche ed economiche a livello internazionale. Ma, anche in questo campo, ignorarne le radici ideologiche, in particolare in relazione al concetto di corruzione e stato di diritto, significherebbe non riuscire a comprenderne la portata storica. Sin dal 2002, infatti, il 16° Congresso del Partito Comunista Cinese ha sponsorizzato una nuova retorica del legalismo, concettualizzato come il sistema più efficiente per permettere equità e partecipazione nello stato cinese.
Lo scienziato politico cinese Pan Wei, in un famoso articolo del 2003 diventato una specie di manifesto politico del legalismo, ha affermato che “lo stato di diritto risponde direttamente al bisogno più urgente della società cinese – arginare la corruzione nell’era dell’economia di mercato. La competizione elettorale per le cariche governative,” continua Pan Wei, “non è un modo efficace per frenare la corruzione; potrebbe portare alla concentrazione del potere nelle mani dei leader eletti.”[14] Fatte le opportune distinzioni, il nuovo autoritarismo costituzionale che si sta delineando in Thailandia ricalca le stesse linee: un sistema legalistico in cui gli ufficiali non eletti creano e fanno rispettare la legge, ratificano i nomi dei candidati, e certificano la loro “moralità” al di là della volontà elettorale. Il tutto secondo un principio di base: la superiorità morale dei “bravi cittadini non eletti” rispetto ai politici eletti nel prevenire la corruzione e creare buon governo. Sarebbe facile pensare a questi cambiamenti come dei contraccolpi temporanei o come una fase storica che terminerà con le prossime elezioni, tuttavia, per le ragioni sin qui esposte, sembra verosimile che queste ultime, a prescindere dalle scelte di voto, saranno delle elezioni di facciata che non scalfiranno il potere dei militari. Viene da pensare che i governanti thailandesi abbiano letto una pagina dal Gattopardo e si preparino a cambiare tutto affinché non cambi niente.
[1] Due nuovi partiti – Future Forward e Palang Pracharat – sono nati nel 2018. Il primo, legato al magnate progressita Thanathorn Juangroongruangkit è dato dai sondaggi intorno al 15%. Il secondo, vicino al governo militare, è proiettato intorno al 20% (NIDA Polls, Settembre 2018, online: http://nidapoll.nida.ac.th/file_upload/poll/document/20180921052305.pdf). Per un approndimento sui nuovi partiti Thailandesi si veda: McCargo, D. (2018) ‘Thailand’s Changing Party Landscape’, ISEAS Perspective No. 63, Singapore: ISEAS-Yusof Ishak Institute.
[2] Phua Thai (il partito vicino alla famiglia Shinawatra) e Democrat Party (vicino alle classi medie conservatrici) sono rispettivamente dati dai sondaggi al 30% e 20% (NIDA Polls, Settembre 2018, online: http://nidapoll.nida.ac.th/file_upload/poll/document/20180921052305.pdf).
[3] Sopranzetti, C. (2016) ‘Thailand’s Relapse: The Implications of the May 2014 Coup’, The Journal of Asian Studies 75(2): 299-316.
[4] Chalermpalanupap, T. (2018) ‘Daunting Uncertainties Ahead as Thailand Moves Towards 2019 Elections’, ISEAS Perspective No. 71, Singapore: ISEAS-Yusof Ishak Institute.
[5] Chalermpalanupap, T. (2018) ‘Daunting Uncertainties Ahead as Thailand Moves Towards 2019 Elections’, ISEAS Perspective No. 71, Singapore: ISEAS-Yusof Ishak Institute.
[6] Il processo di decentralizzazione economica e amministrativa in Thailandia è stato parte della politica di Thaksin and Yingluck Shinawatra sin dall’inizio degli anni 2000 ed è sempre stato visto come un attacco al dominio di forze economiche e politiche basate a Bangkok.
[7] Per maggiori dettagli sulla relazione tra budget militari e colpi di stato in Thailandia si veda Kawaura, A. (2018) ‘Generals in defense of allocation: Coups and military budgets in Thailand’, Journal of Asian Economics, 58: 72-78.
[8] Engels, F., & Marx, K. (2016). Manifesto del partito comunista. Bari: Laterza, p.1.
[9] Si veda il precedente numero di RISE (RISE Vol. 3, N. 2: https://www.twai.it/it/magazines/ordine-e-mutamento-nel-sud-est-asiatico/) e in particolare l’articolo di Pietro Masina “Dalla promessa di democratizzazione al ritorno di autoritarismi e populismi”, pp. 4-5 (online: https://www.twai.it/articles/dalla-promessa-di-democratizzazione-al-ritorno-di-autoritarismi-e-populismi/).
[10] I due esponenti di punta di queste teorie sono Francis Fukuyama e Samuel Huntington. In particolare, si veda: Fukuyama, F. (1992) The end of history and the last man, New York: Free Press; Huntington, S. P. (1991) The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century, Norman, Oklahoma: University of Oklahoma Press.
[11] In particolare si veda: Hewison, K. (2018) ‘Thailand: An old relationship renewed’, The Pacific Review, 31(1): 116-130; Chachavalpongpun, P. (2012) ‘Thailand: the enigma of bamboo diplomacy’ in B. J. C. McKercher (ed.) Routledge Handbook of Diplomacy and Statecraft, Abingdon: Routledge, pp. 238-248; Pongsudhirak, T. (2018) Authoritarianism is accelerating in Southeast Asia – The China model is winning, at the expense of liberal values, Nikkei Asian Review, online: https://asia.nikkei.com/Editor-s-Picks/Looking-ahead-2018/Authoritarianism-is-accelerating-in-Southeast-Asia; Zawacki, B. (2017) Thailand: Shifting Ground Between the US and a Rising China, London: Zed Books Limited; Ambrosio, T. (2012) ‘The rise of the ‘China Model’ and ‘Beijing Consensus’: evidence of authoritarian diffusion?’, Contemporary Politics 18(4): 381-399; Halper, S. A. (2010) The Beijing Consensus: How China’s Authoritarian Model Will Dominate the Twenty-First Century, New York: Basic Books; Cheng, Y. N. (2012) ‘The Chinese model of development: An international perspective’ in Z. Deng (ed.) Globalization And Localization: The Chinese Perspective, pp. 183-204.
[12] Sopranzetti, C. (2016) ‘Thailand’s Relapse: The Implications of the May 2014 Coup’, The Journal of Asian Studies 75(2): 299-316.
[13] Sinpeng, A. (2014) ‘Corruption, Morality, and the Politics of Reform in Thailand’, Asian Politics & Policy 6(4): 523-538.
[14] Pan, W. (2003) ‘Toward a consultative rule of law regime in China’, Journal of Contemporary China 12(34): 3-43.
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