Parallelamente alla transizione politica interna, il Myanmar ha vissuto negli ultimi quattro anni anche un’importante transizione della politica estera. L’isolamento internazionale, cui il Paese si trovava costretto sin da inizio Sessanta, aggravatosi con l’imposizione delle sanzioni negli anni Novanta, si è gradualmente allentato, come evidenziato in particolare dal disgelo delle relazioni con gli Stati Uniti. Nel novembre del 2011 il Myanmar accolse Hillary Clinton nella prima visita di un Segretario di Stato americano dal lontano 1955. Seguiva un anno dopo il Presidente Barack Obama, il cui ispirato discorso all’Università di Yangon – ripreso dai media di tutto il mondo – sanciva anche simbolicamente la svolta diplomatica del Paese. Al tempo stesso, tuttavia, Naypyitaw sperimentava un raffreddamento nelle relazioni con Pechino, tra i suoi maggiori sostenitori durante i lunghi anni di isolamento internazionale. Ne era un segnale, già nel settembre del 2011, la decisione del Presidente Thein Sein di sospendere i lavori alla diga di Myitsone, importante progetto di cooperazione bilaterale. Da allora si sono registrati ripetuti screzi, non da ultimo nella delicata partita delle regioni di confine, dove l’offensiva del Tatmadaw ha suscitato più di una perplessità in Cina. Nella primavera del 2015 i combattimenti finivano per sconfinare ripetutamente in territorio cinese, provocando le vibrate proteste di Pechino.
Per capire la parabola delle relazioni con la Cina non si può non tener conto delle ricadute che il processo di transizione politica interno al Myanmar ha avuto sulla politica estera del Paese. Due fattori hanno contribuito a rimettere in discussione scelte consolidate nel tempo: la competizione politica interna e l’influenza di attori esterni sulla transizione stessa. Da un lato, il processo di liberalizzazione ha aperto nuovi spazi di competizione tra la “vecchia guardia” al potere e i suoi sfidanti, attribuendo rilevanza politica cruciale a questioni che sino ad allora non ne avevano avuta. Dall’altro, il processo politico interno è stato profondamente condizionato dal tentativo di molteplici attori esterni di esercitare una qualche forma di influenza. Così, i desiderata di Stati Uniti, Cina, ASEAN, Unione Europea – per citarne solo alcuni – hanno pesato in modo significativo sul calcolo dei decisori interni.
Due esempi tratti dalle relazioni economiche tra Myanmar e Cina aiuteranno a illustrare il punto. Il primo è la decisione di sospendere i lavori alla diga di Myitsone, cui si accennava poco sopra. Oggetto di un accordo del 2006 tra le autorità del Myanmar e un’importante azienda di Stato cinese, la diga doveva sorgere nello Stato Kachin, alle origini dell’Irrawaddy. Il progetto aveva da subito suscitato una vasta opposizione, che univa le migliaia di abitanti destinati al trasferimento forzato, il Kachin Independence Army (KIA) insediato su parte del territorio interessato, nonché svariate ONG impegnate nella protezione dell’ambiente. Nonostante ciò, i lavori avevano avuto inizio alla fine del 2009. Nel 2011, tuttavia, la transizione politica in atto modificava significativamente i termini della questione: sullo sfondo della crescente competizione politica, la radicata opposizione al progetto assumeva una rilevanza politica del tutto nuova. Per la vecchia guardia, la diga rischiava infatti di trasformarsi in terreno fertile per le opposizioni, come divenne in effetti chiaro nel settembre 2011, quando Aung San Suu Kyi si schierò apertamente contro il progetto. A ciò si aggiungeva il ruolo di alcuni rilevanti attori esterni: era il caso degli Stati Uniti, che – secondo materiale reso noto da Wikileaks – avrebbero persino sostenuto finanziariamente alcune ONG contrarie alla diga. Emergevano su questo sfondo le prime divisioni all’interno del governo e il 30 settembre 2011 arrivava infine la decisione del Presidente Thein Sein di sospendere i lavori, sino alla conclusione del proprio mandato.
Il secondo caso riguarda invece la miniera di rame di Letpadaung, anch’essa oggetto di cooperazione con un’azienda di Stato cinese. Nell’autunno del 2012 l’avvio dei lavori era stato osteggiato dagli abitanti della zona, che avevano occupato per settimane parte del sito. Seguiva il 29 novembre un attacco della polizia, conclusosi con il ferimento di molti manifestanti, inclusi alcuni monaci buddisti. La vicenda suscitò grande scalpore nel Paese e all’estero, in particolare per la violenza impiegata dalle forze di polizia, che avevano fatto uso di esplosivi contenenti fosforo. Il Presidente Thein Sein decise di istituire un’apposita commissione d’inchiesta, che avrebbe indagato sulla vicenda e formulato un parere al governo sull’opportunità di continuare o meno il progetto. Con acuta mossa politica, a capo della commissione venne nominata Aung San Suu Kyi, eletta nel frattempo parlamentare alle elezioni suppletive della precedente primavera. Pur evidenziando una serie di gravi carenze nel progetto, a marzo 2013 la commissione ne raccomandò la continuazione, benché con alcuni correttivi. A differenza di quanto avvenuto a Myitsone, la leader dell’opposizione sceglieva quindi di non cavalcare il dissenso, dando anzi il proprio benestare a un controverso progetto della vecchia guardia. Che cosa spiega questa scelta da parte dell’opposizione? Possiamo ipotizzare che un ruolo determinante l’abbiano esercitato meccanismi di influenza esterna. Contrariamente a quanto accaduto nel caso della diga di Myitsone, questa volta Pechino non si era lasciata cogliere di sorpresa. Utilizzando molteplici canali, il governo cinese aveva convogliato alle controparti un messaggio assai chiaro: il progetto doveva continuare. Pare che questo messaggio abbia trovato orecchie attente in Aung San Suu Kyi, il cui partito era impegnato – proprio in quei mesi – in una delicata operazione di ricucitura politica con Pechino.
Questi due casi ci aiutano a comprendere i dilemmi della politica estera nelle fasi di transizione, quando i decisori sono più che mai influenzati tanto dalle dinamiche della competizione politica interna, quanto dai meccanismi dell’influenza esterna. Sarà bene tenere a mente queste due variabili nell’osservare i primi passi di politica estera del nuovo Myanmar. Da un lato, la competizione politica interna esce profondamente ridisegnata dalle elezioni dell’8 novembre, con la straordinaria vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia. Dall’altro, persiste l’influenza determinante di taluni attori esterni sul processo politico interno al Paese. La Cina, in particolare, è destinata a rimanere centrale nel calcolo strategico del Myanmar, come riconosciuto del resto dalla nuova classe dirigente. Ne sono una dimostrazione le aperture della stessa Aung San Suu Kyi, a partire dalla visita – la sua prima – a Pechino nel giugno 2015, coronata dall’incontro con il Presidente cinese Xi Jinping. I terreni su cui da subito si misureranno le relazioni bilaterali non sono semplici: la situazione di persistente conflittualità nelle regioni al confine, ma anche i dilemmi della cooperazione economica. Resta da capire, in proposito, che cosa la nuova dirigenza deciderà di fare del progetto di Myitsone, ora che il mandato di Thein Sein volge definitivamente al termine – e, con esso, anche la sospensione decisa nel 2011.
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