Il 22 settembre 2018 è diventata di pubblico dominio l’esistenza di un accordo fra Cina e Santa Sede di portata davvero epocale sia per la Repubblica popolare cinese, sia per la Chiesa cattolico-romana e più in generale per il Cristianesimo.[1]
Per la Repubblica popolare cinese significa l’uscita provvisoria (su questo torneremo) da una posizione provinciale che non combaciava con l’ambizione del paese e della sua dirigenza di svolgere una funzione globale. Infatti, se la campagna di persecuzione e di repressione dei cattolici in Cina – che segna gli anni Cinquanta con arresti, sequestri, condanne, espulsioni[2] – rientra in uno standard repressivo dei paesi del socialismo reale, fin da allora si evidenzia il tentativo di trovare delle forme di sopravvivenza fra il governo e la chiesa ispirate a principi di “autonomia” che proprio i cattolici avevano elaborato e che portarono alla nascita nel 1957 della Associazione patriottica cattolica cinese: un organismo che sorge dopo la fine di ogni relazione diplomatica o informale fra Roma e Pechino e che segna l’inizio di una lacerazione fra le sue comunità – una che grazie all’associazione continua a godere di una continuità nella successione apostolica con una gerarchica di vescovi ordinati validamente ancorché illeggittimamente, e l’altra che in modo clandestino coltiva la stessa fede e che in diverse regioni della Cina riceve trattamenti diversi. [3]
Un’evoluzione in fondo rapida avviene sul finire del decennio: se nel 1958 Pio XII, con la enciclica Ad Apostolorum Principis, continua a lamentare una situazione che per lui costituisce solo una fattispecie cinese della più generale campagna antireligiosa dei paesi comunisti e ritiene quella forma di repressione una semplice concretizzazione dell’ideologia dell’ateismo di Stato, dall’anno successivo, il nuovo Papa Giovanni XXIII spera che il Concilio ecumenico che ha annunciato il 25 gennaio 1959, poco dopo aver di nuovo menzionato la situazione cinese, possa mutare il quadro. Com’è noto, Papa Giovanni pensa infatti che alla grande assise che aprirà i lavori l’11 ottobre 1962 possano intervenire anche i vescovi dei paesi comunisti, Cina inclusa, alla quale si fanno aperture ancora da studiare analiticamente attraverso la nunziatura del Cairo.[4] Tale sforzo porterà, sul versante sovietico, alla presenza dei vescovi cattolici dell’est europeo fra i padri conciliari e dei rappresentanti del patriarcato di Mosca fra gli osservatori. Il tentativo di far arrivare da Pechino una analoga risposta andrà invece deluso, e renderà impossibile una qualsiasi forma di dialogo diplomatico e teologico negli anni della Rivoluzione culturale, durante i quali anche i cristiani di confessione cattolica patiscono di una campagna repressiva senza quartiere.
Eppure, questa distanza incolmabile rispetto a Roma non costituisce solo una causa di patimenti per chi deve scegliere fra collaborazione o refrattarietà all’allineamento col governo: costituisce anche un indebolimento di una politica che di nuovo in un breve lasso di tempo – fra il 1979 e il 1982 – vira in modo repentino anche su questo piano. In quel terminus a quo la politica di Deng Xiaoping, basata sul famoso Documento 19 del Comitato centrale del Partito, traccia i lineamenti della politica di riforma ed apertura. In esso, il Partito prende atto non tanto dello scisma interno al Cattolicesimo cinese, quanto della contraddizione in cui si trova proprio il governo che, per avere un episcopato lealista, deve formare, scegliere e ordinare chierici che siano di indubitabile fede cattolica, ai quali imporre nel caso una consacrazione episcopale in cui il mandato di Roma è certamente assente, ma nella quale è possibile una comunione interiore con il successore di Pietro – che non si può impedire, né certificare, né verificare – e che fa parte proprio della tradizione cristiana e cattolico-romana in ispecie. Dall’altra parte, deve però impegnarsi in una repressione della chiesa clandestina che in molti luoghi non ha atteggiamenti politicamente così vivaci e antagonisti, mentre in altri luoghi costituisce una riserva di resistenza anche politica che, sovrapponendo fede cristiana ed anticomunismo in modo tutt’altro che originale, si trova a dover affrontare un martirio politico e religioso il cui intreccio, ancora una volta, non è possibile verificare, né certificare, né impedire.
Eppure, proprio la caduta del muro di Berlino e il successo della Ostpolitik vaticana (senza la Ostpolitik di Agostino Casaroli, Karol Wojtyła non sarebbe nemmeno salito sul volo per Roma nel 1978) hanno creato le condizioni di un dialogo nuovo, prudente, complesso. La visita dell’allora mons. Ferdinando Filoni ad un’anodina mostra filatelica, i contatti di mons. Claudio Celli, la posizione prima dello stesso Casaroli e poi del card. Achille Silvestrini hanno messo a fuoco la necessità di aprire canali diretti – strategia che aveva molti avversari dentro e fuori la Cina, anche aldilà del nugolo di sedicenti mediatori e facilitatori che aggiungevano passaggi intermedi ad un contatto che sarebbe stato credibile solo se diretto. Aveva contro, dentro la Cina, quei settori del Partito convinti che per tutto l’universo delle fedi religiose – da quelle cristiane a quelle islamiche, alle chiese istituite secondo forme di congregazionalismo molto fluido – si dovesse usare lo stesso metro. Ed è a questi ambienti che si devono le non poche provocazioni anche sanguinose che hanno visto consumarsi, proprio nei momenti in cui si apriva qualche spiraglio di dialogo, espulsioni e arresti, distruzione di chiese e occultamento di croci. Dentro il Cattolicesimo è stata invece la voce solenne dei perseguitati – ai quali Giovanni Paolo II diede la porpora cardinalizia quasi a saldare un debito di fraternità che l’ex suddito della Polonia comunista non poteva non sentire verso confratelli che avevano conosciuto le prigioni e la “rieducazione” – a catalizzare l’opposizione ad un contatto al quale si imputava addirittura di essere corrivi ai persecutori,[5] quasi che si volesse ignorare la voce dei confessori della fede che non professavano la fede dalla galera, ma che tenevano viva una tradizione sacramentale, dottrinale, liturgica.
Gli avversari dell’uno e dell’altro tipo hanno ottenuto “successi” significativi, come ad esempio le canonizzazioni dei martiri cinesi fissate durante il giubileo del 2000 in concomitanza con la festa nazionale della Repubblica popolare con un gesto di sfida tanto sterile quanto politicistico e, dall’altra parte, l’annuncio dell’ordinazione di ben 12 vescovi (numero non casuale) consacrati senza mandato papale; o le due ordinazioni illegittime del 2006 che volevano sanzionare la creazione del card. Joseph Zen Zekiun di Hong Kong.
La concentrazione del dissidio della questione delle ordinazioni ha segnato, però, anche un progresso: perché circoscriveva l’area del conflitto ad un terreno in cui la Cina pagava una scarsa conoscenza storica ed un deficit di conoscenze teologiche che non potevano essere sostituite dal ricorso a figure e ambienti che si sono candidate a fungere da mediatori fra due entità al fondo comparabili per la complessità del loro decision making.[6] La Cina infatti continuava a considerare la nomina dei vescovi e l’“autonomia” di quel processo dentro le categorie ecclesiologiche dei cattolici del Sichuan degli anni Cinquanta: quasi che il potere di nomina papale fosse una garanzia della cattolicità. Mentre, come tutti sanno, i modi di elezione dei vescovi sono stati molteplici nel tempo e a più riprese, laddove non era il clero o il capitolo ad eleggere il vescovo, era stata l’autorità del sovrano cattolico che aveva esercitato una funzione di scelta, rispetto alla quale il nodo centrale era la capacità dell’eletto di essere accolto (nullus invitus detur episcopus dice la regola di san Celestino ancora valida nella chiesa latina). E d’altro canto la memoria d’elefante della diplomazia pontificia non dimenticava che per una chiesa come quella latina avere vescovi è più essenziale che sceglierli, anche perché quando negli anni Sessanta venne il momento di dare un vescovo a Cracovia fu proprio il Partito comunista polacco che preferì Wojtyła, ritenendolo più malleabile…
Così, quando a Casaroli e Silvestrini si è sostituito l’allora mons. Parolin a gestire il complesso dossier Cina, è stato possibile alla Santa Sede scrivere e recapitare una lettera ai cattolici cinesi firmata da Benedetto XVI:[7] con essa, il Papa ha riconosciuto in una parte non piccola del clero e dell’episcopato che pure aveva accettato il compromesso col governo una fedeltà nella fede dalla quale, nella visione cattolica, non può non scaturire la comunione, che è un dono e non un sentimento. Alcuni vescovi pertanto sono stati riconosciuti bilateralmente da Roma e da Pechino; altri sono “usciti” dalla clandestinità, come il vescovo Francis An Shuxin, coadiutore di Baoding, importante città dell’Hebei ed epicentro delle persecuzioni in vari decenni precedenti. E la politica dell’armonia (héxié, 和谐), indicata nel 2005 da Hu Jintao come linea di condotta, ha iniziato a modificare il paesaggio.[8]
Com’era prevedibile, anche quella lettera ha suscitato approvazioni e provocazioni. Da parte cinese, la più grave fu quella avvenuta al momento della successione a Shanghai, dove fra il 2010 e il 2012 i vescovi consacrati per reggere la diocesi dopo mons. Alojsius Jin, santo e vegliardo gesuita che durante la sua vita aveva avuto sia la condanna del Partito sia la scomunica di Roma, sono stati deposti e arrestati in una stretta repressiva che diceva quanto fosse vicino il risultato. [9]
Sensazione confermata con un abbrivio diverso dopo l’elezione di un gesuita al soglio di Pietro (perché per la compagnia la Cina è da sempre l’orizzonte della missione) e dopo la nomina di Parolin a Segretario di Stato. L’uomo che aveva tenuto le fila del dialogo ne diventava così il tessitore e i segni di attenzione di Pechino sono diventati sempre più netti: Papa Francesco che diceva di voler incontrare Xi Jinping fissava un metodo, accompagnato dalla canonizzazione di Matteo Ricci e Xuanqi.[10]
In realtà la previsione di un incontro era audace e qualche passaggio (e ancora qualche provocazione) si sarebbe manifestato: il più importante di questi è stato un’intervista nel quaderno 4015 “Civiltà Cattolica” del 7 ottobre 2017 del gesuita cinese Joseph Shih, prete novantenne, formatosi con Arrupe, per molti anni alla Radio Vaticana dell’era Tucci.[11] Apparsa alla vigilia del Congresso nazionale del Partito comunista cinese, l’intervista diceva tre cose che non sarebbe insensato considerare i presupposti storico-teologici dell’accordo almeno da parte Vaticana. Shih sosteneva che in Cina c’è “una chiesa sola”: non si trattava di un fervorino, ma di un’ipotesi di revoca generale della scomunica che colpiva vescovi consacrati e consacranti che avevano agito senza mandato papale. Certo, alcuni di loro potranno essere stati o essere spiritualmente invertebrati (e non sarebbero i soli nel collegio episcopale): ma credere che i tanti preti che crescono sapendo di non sapere quale sarà il loro destino canonico quando gli sarà chiesto di prendersi cura di una chiesa non siano mai assistiti dallo Spirito sarebbe impossibile. Inoltre Shih spiegava che l’ipotesi di accordo (evidentemente già elaborata in quel momento) si basava su una “reciproca tolleranza”: non dunque un riconoscimento fra poteri, ma un modello che si potrebbe definire a-costantiniano. Infine Shih annunciava la riabilitazione di mons. Ma Daqin, vescovo di Shanghai deposto poche ore dopo la sua consacrazione per una frase interpretata da solerti funzionari come un attacco all’associazione patriottica di cui era stato membro: un segno che l’accordo aveva delle contropartite divenute visibili.
A febbraio del 2018 si sono testate altre parti dell’accordo (ancora con una reazione del card. Zen resa più vibrante dall’adesione del porporato alla cordata antibergogliana nella chiesa cattolica): si è infatti provveduto alla nomina di due nuovi vescovi di Shantou e Mindong, in sostituzione di due vescovi della chiesa clandestina ormai anziani. Un’operazione che in altri tempi si sarebbe consumata con metodi spicci o peggio: e che invece hanno visto prevalere la logica dell’unità e del Vangelo, nella convinzione che l’incontro fra il Cristo e la Cina debba guidare i passi apostolici e non la riduzione del Cattolicesimo come “correlato religioso” (come dice Gianni Valente) dell’ideologia occidentale.
A luglio del 2018, infine, un importante giornale cinese di stretta osservanza governativa – il Global Times – in un pezzo firmato da Zhang Yu lasciava dire ad un intervistato che la visita del Papa in Cina avrebbe “un significato e un impatto maggiore di quella di Nixon del 1972”. Tesi ovvia, ma che indicava come da Pechino venisse un segnale che dava all’accordo il suggello tanto atteso e accendeva un primo semaforo verde, ancorché in lontananza.
Così si è giunti all’annuncio del 22 settembre 2018 sulla firma fra i due vice di Parolin e del suo omologo cinese di un accordo segreto che risolve la questione della nomina concordata dei vescovi. Dell’accordo si conosce il poco scritto in un comunicato congiunto dal quale si deduce che la procedura concordata, fatta di scelte cinesi e verifiche vaticane (in quest’ordine) è ormai stabile e restituisce alla chiesa cinese unita dalla fede anche l’unità disciplinare e istituzionale che si realizzerà nell’arco di qualche anno, con l’avvicendamento nelle sedi maggiori o con la regolarizzazione di quelle vacanti. Dell’accordo non si conoscono i dettagli procedurali (quanti vescovi propone l’associazione patriottica e quante volte Roma ha possibilità di veto), ma è da presumere che siano non molto diversi da quelli già goduti dalle corone cattoliche. Quel che si sa è che esso si presenta con sopraffino understatement come “provisional” (dice il testo inglese) ovvero “provvisorio” nella versione italiana o “temporaneo” (dice il testo cinese).
Non è la traccia di una diffidenza che non lascia tempo al tempo: forse il contrario. La convinzione cioè che il tempo appianerà difficoltà e darà modo ad entrambi gli interlocutori di comprendere fino in fondo la portata delle questioni in gioco. [12] L’accordo ha infatti un peso rilevantissimo sul piano della politica cinese, in certo senso testimoniato dalla decisione del Presidente Xi di non usare la sua visita a Roma del marzo 2019 per incontrare il Papa: cosa che avrebbe avuto certo un valore simbolico enorme e un peso politico ben più alto di quello rappresentato dal primo contatto fra gli alti funzionari del Partito e gli alti funzionari di curia che al riparo da occhi indiscreti hanno continuato gli scambi e deciso su di questioni di peso. Nel vaso della politica cinese, infatti, può darsi che il timore della penetrazione delle chiese evangeliche -che la Repubblica popolare misura sul proprio suolo e nelle grandi aree africane in cui è presente – abbia avuto un peso: così difficile da cogliere e sfuggente a quelle operazioni repressive che sulle grandi chiese strutturate sono agevoli, la disseminazione delle chiese evangeliche potrebbe aver convinto le autorità prudenti e quelle ottuse a intensificare il dialogo con una chiesa che ha una gerarchia e una catena di comando intelligibile alle menti del Partito e dello Stato. Certo l’accordo sino-vaticano dimostra che il paese che vuole essere l’interlocutore dei grandi agglomerati ha capito che la chiesa di Roma è l’unico interlocutore globale col quale valga la pena confrontarsi: non in quanto potere o sistema all’ombra del quale crescono ambizioni di potere a volte perfino comiche nella loro smisurata vanità, ma perché ha una capacità di far sentire la voce universale del povero, che per lei è icona misteriosa del suo Signore.
L’accordo ha pure un rilievo enorme sul piano della vita della chiesa universale, anche se proprio a marzo del 2019 il Papa ha dovuto ripiegare dopo aver dato la sua disponibilità a qualsiasi forma di contatto – dentro o fuori le mura vaticane – che egli avrebbe preparato dentro di sé con le stesse regole e gli stessi fini con cui Francesco d’Assisi incontrò il Sultano nel 1219. [13] Nella Santa Sede infatti è ormai chiaro che se c’è una cosa che la crisi degli abusi sessuali del clero ha mostrato è stata l’insufficienza dei vescovi, anche dei più robusti, sul piano della carriera: e spinge a chiedersi qual è il modo con cui sono stati scelti e se le stesse ragioni emergenziali che dopo la crisi napoleonica portarono a concentrare a Roma la scelta dei futuri vescovi non spingano oggi le chiese ad assumere una responsabilità più diretta nell’elezione dei loro pastori. Il “modello” cinese concentra questa elezione in un organo che si ritiene adeguato per la sua lealtà politica: ma con esso si rompe il tabù della scelta fatta (a nome del Papa e più di rado dal Papa). Si riapre una questione di grande portata istituzionale e canonica, insieme a quella teologica: perché l’universalismo cristiano ha bisogno di imparare il cinese per poter esprimere la sua cattolicità.
Nel XVII secolo per scrivere il nome di Gesù con due ideogrammi i primi missionari seguirono una via fonetica e scelsero i segni di Yi-Shu: sembrava un buon risultato, ma il significato proprio dei due segni – “topo migratore” – era fuorviante a dir poco. [14] Dieci secoli prima, i monaci siro-orientali venuti da Isfahan alla corte dell’imperatore a Xi’An avevano preferito parlare di una “religione luminosa” nella quale “il venerabile e radioso messia” aveva spinto “coi remi la barca della misericordia per salire al palazzo luminoso” e “si elevò alla Verità”. E Matteo Ricci aveva tradotto il terzo comandamento così: “nel giorno di festa far visita al monastero per recitarvi dei sûtra”. [15] Oggi quella sfida si propone in termini nuovi, con una nuova “dinastia” con la quale non si deve trovare un accordo per bieche ragioni di realpolitik ma perché quella ricerca di come il logos si faccia ideogramma tocca il cuore del Vangelo ed è il servizio della Cina al Vangelo.
[1] Sala Stampa della Santa Sede, “Comunicato circa la firma di un Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi”, 22 settembre 2018, disponibile all’Url https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/09/22/0673/01468.html.
[2] Per un riferimento comparativo di lungo periodo si vedano: Francesco D’Arelli, “A. Camps e P. McCloskey, The friars minor in China (1294-1955): Especially the years 1925-55, St. Bonaventure: St. Bonaventure University / Roma: Segretariato Generale per l’Evangelizzazione Missionaria Curia Generalizia”, Archivum Franciscanum Historicum 40 (1997): 629-630.
[3] Elisa Giunipero, Chiesa cattolica e Cina comunista. Dalla rivoluzione del 1949 al Concilio Vaticano II (Brescia: Morcelliana, 2007).
[4] Alberto Melloni (a cura di), Storia del concilio Vaticano II (Bologna: Il Mulino, 2015).
[5] Beatrice Leung, “Communist party-Vatican interplay over the training of Church leaders in China”, Journal for the Scientific Study of Religion 40 (2001) 4: 657-673.
[6] Si confrontino ad una decina di anni fa le posizioni di “Cina e cristianesimo: una nuova fase di incontro?” Concilium, Rivista Internazionale di Teologia (2008) 2.
[7] Il testo in inglese della lettera di Benedetto XVI è disponibile all’Url www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2007/documents/hf_ben-xvi_let_20070527_china_en.html.
[8] Matteo Nicolini-Zani, I nostri fratelli cinesi. Le comunità cattoliche nella Cina contemporanea (Bose: Qiqjon, 2009).
[9] Gianni Valente, “Pechino-Vaticano: la pace s’avvicina malgrado tutto”, Limes – Rivista Italiana di Geopolitica, 25 gennaio 2017, disponibile all’Url http://www.limesonline.com/cartaceo/pechino-vaticano-la-pace-savvicina-malgrado-tutto?prv=true.
[10] Ron Po-chia Hsia, Un gesuita nella città proibita. Matteo Ricci, 1552-1610 (Bologna: Il Mulino 2012).
[11] Antonio Spadaro, “La chiesa e il governo cinese. Intervista a p. Joseph Shih”, Civiltà Cattolica IV (2017) 4015: 52-58.
[12] Per una cornice si veda ancora Étienne Ducornet, La Chiesa e la Cina (Milano: Jaca Book, 2008).
[13] Antonio Spadaro (a cura di), Nell’anima della Cina. Saggezza, storia, fede (Roma: Civiltà Cattolica, 2017).
[14] Per la questione del nome di Dio si veda Kevin N. Cawley, “De-constructing the name(s) of God: Matteo Ricci’s translational apostolate”, Journal Translation Studies 6 (2003) 3: 293-308.
[15] Sulla semiologia di Ricci come traduttore si veda Wu Zhiwei, “Introducing a Western scientific work to China: Xu Guangqi and Matteo Ricci’s translation of The Elements of Geometry”, Guangdong University of Foreign Studies, disponibile all’Url https://pdfs.semanticscholar.org/1336/16dfe322ce841e3692c805b4a24553a040c3.pdf.
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