Non si può dire che la “quinta generazione” di leader oggi al potere a Pechino abbia goduto di un periodo di luna di miele prolungato. A giudicare dall’infuocato dibattito che ha preceduto il summit estivo informale di Beidaihe ad agosto – sorta di ritiro annuale per preparare l’agenda politica per la decisiva sessione plenaria autunnale del Comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc) – è in pieno svolgimento la battaglia politica per stabilire lo spazio di manovra a disposizione dei nuovi vertici e, in particolare, di Xi Jinping – segretario generale del partito e presidente della Repubblica – e del premier Li Keqiang. Non si spiegherebbe altrimenti l’inusuale uscita pubblica a sostegno di Xi fatta da Jiang Zemin, l’anziano ma tuttora influente ex-numero uno (1989-2002) portato alla guida del Partito-Stato dopo i fatti di Piazza Tian’anmen da Deng Xiaoping in persona: nel corso di un incontro con Henry Kissinger il 3 luglio scorso, Jiang ha voluto lodare espressamente (sito in cinese) la caratura di Xi quale saggia guida del paese.
Sempre nell’ottica della preparazione dell’agenda politica autunnale va letto l’inatteso, stupefacente licenziamento di Jiang Jiemin, sino a fine agosto direttore della State-Owned Assets Supervision and Administration Commission (Sasac), potente organo centrale incaricato di governare i grandi conglomerati delle imprese di Stato. In quanto membro di rango del Comitato centrale, Jiang è ad oggi il più alto funzionario di partito posto sotto inchiesta per “violazioni della disciplina” da che Xi è assurto ai vertici del Partito- Stato. Ancor più significativo – e potenzialmente esplosivo – il fatto che Jiang Jiemin abbia fatto carriera nella China National Petroleum Corporation, sotto il patronato di Zhou Yongkang, potentissimo ex membro del Comitato permanente del Politburo del Pcc blicamente a Zhou si tratterebbe di una clamorosa rottura di una tradizione che prevede l’intangibilità degli ex-membri del Comitato permanente del Politburo e delle loro famiglie. Si aprirebbero scenari difficilmente ponderabili.
Come mai tanta tensione? In fin dei conti la nuova dirigenza eredita un paese prospero, a prima vista uscito indenne dalla crisi finanziaria globale e dalla delicata transizione ai vertici del Partito- Stato avvenuta lo scorso novembre. Vista da Zhongnanhai – dal 1949 il “Cremlino” della leadership della Rpc, non a caso situato nell’immediata prossimità della Città Proibita a Pechino – la realtà appare alquanto diversa. L’economia cinese è stata colpita pesantemente dalla crisi del 2008: a causa della forte contrazione del commercio globale, le imprese cinesi non sono riuscite a mantenere livelli di esportazioni sufficienti ad assicurare la sostenibilità della crescita economica. Solo un massiccio piano di stimolo ha consentito di mantenere dinamiche di crescita intorno all’8% annuo: 580 miliardi di dollari Usa sono stati investiti soprattutto in progetti infrastrutturali e nella ricostruzione della regione del Sichuan devastata da un grave sisma. Questo tempestivo intervento, pari a oltre il 13% del Pil nel 2008, ha evitato un collasso dalle conseguenze imprevedibili, ma ha ulteriormente aggravato le distorsioni dell’economia cinese.
A complicare le cose, nei tre “anni perduti” 2009-2012 la leadership uscente ha scelto di guadagnare tempo, prima iniettando dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario ufficiale (2009-2010) e poi di fatto consentendo politiche espansive da parte dei governi locali attraverso una proliferazione di veicoli finanziari irregolari e del cosiddetto sistema bancario “ombra”. Il Fondo Monetario Internazionale fissa così il debito pubblico della Rpc nel 2012 al 46% del Pil, cifra a cui si perviene sommando il debito dichiarato dal governo centrale a quello contratto (ufficialmente e non) dai governi locali. Una percentuale in netta crescita rispetto al passato, ma che non sarebbe di per sé preoccupante, considerato che nel 2012 il debito degli Stati Uniti e quello del Giappone hanno superato rispettivamente il 100% e il 230% del Pil, senza che la solvibilità di Washington e Tokyo fosse messa in dubbio. La struttura dell’economia cinese è però sostanzialmente diversa da quelle statunitense e giapponese. Anzitutto la misurazione dei livelli di indebitamento dei governi locali è ardua persino per Pechino, al punto che alla fine dello scorso luglio il Consiglio di Stato – l’esecutivo nel sistema cinese – ha chiesto alla Ragioneria di Stato (il National Audit Office) di rendere noto con urgenza il reale volume del debito nazionale, che fonti qualificate dello stesso Ministero delle Finanze cinese ritengono superi il 65% del Pil 2012.
Inoltre, nel sistema “socialista di mercato con caratteristiche cinesi” il debito del settore pubblico non è solo quello dei vari livelli governativi: il debito societario in Cina è salito ai massimi da 15 anni, toccando il 122% del Pil, un livello di per sé preoccupante, ma che contribuisce anche a mettere sotto pressione l’erario poiché larga parte di questo debito è imputabile a imprese di Stato (che, in Cina, generano tuttora tra il 40 e il 50% del Pil). Sia i governi locali che i grandi conglomerati statali, poi, hanno visto i ritorni sui propri investimenti deteriorarsi negli ultimi anni: un mix esplosivo di azzardo morale, allocazioni di risorse dettate da ragioni di opportunità politica piuttosto che da logiche di profitto, corruzione diffusa e debole crescita globale fa sì che amplissime quote del debito contratto dopo il 2010 siano state utilizzate per rinnovare altro debito in scadenza, generando un circolo vizioso.
Questo sistema si sostiene, in definitiva, proprio sul presupposto che il governo centrale non possa – per motivi politici, oltre che economici – consentire che grandi imprese di Stato o banche falliscano. Al di là dell’impatto d’immagine, peraltro non irrilevante per un paese che sta al contempo tentando di accreditare il renminbi come affidabile valuta sostenuta da un’economia solida, il rischio è una riedizione su più ampia scala del problema del debito triangolare che ha già afflitto la Rpc negli anni ’90 del secolo scorso. Il diffondersi a cascata di prolungate posizioni debitorie tra aziende, fornitori e banche rischia di essere fatale per gli anelli più deboli della catena – tipicamente imprese del settore privato, che contribuiscono per la gran maggioranza dei posti di lavoro nel paese. I riflessi sulla tenuta del quadro sociale sono immaginabili: Pechino può a stento permettersi un’ondata di fallimenti per un eccesso di debito in circolo nell’economia nazionale, proprio quando – nel 2013 – i neo-laureati in Cina toccheranno la cifra di 7 milioni di unità, di cui si stima 3 milioni non troveranno in breve tempo un’occupazione (e senz’altro non un’occupazione coerente con il proprio livello di professionalità). Negli anni ’90 l’allora premier Zhu Rongji, tutelato da un quadro politico stabile, poté intervenire con decisione, riuscendo a risolvere la crisi con una massiccia riforma delle imprese di Stato. Nel 2012, quando la situazione andava deteriorandosi oltre i limiti di sicurezza, il suo successore Wen Jiabao non riuscì a mobilitare analogo capitale politico.
È a questa situazione che Xi Jinping e Li Keqiang sono ora chiamati a rispondere con riforme strutturali che intervengano sui due meccanismi fondamentali che hanno presieduto alla turbo-crescita sperimentata dalla Cina negli ultimi trent’anni:
• l’integrazione della Rpc nel sistema produttivo e commercia le internazionale, che ha reso la Cina la più importante fabbrica/ piattaforma d’assemblaggio manifatturiero al mondo e, oggi, il primo esportatore a livello globale;
• il forte incentivo agli investimenti quali volano per la crescita e la parallela repressione dei consumi interni attraverso una dinamica dei redditi reali positiva ma inferiore rispetto all’andamento del Pil, peraltro in assenza di un adeguato sistema di welfare.
Se il premier Li ha già dato dimostrazione di saper intervenire con energia e in modo innovativo con il varo, nel luglio di quest’anno, di un mini-pacchetto di stimolo volto a “liberare le energie del mercato”, è inevitabilmente Xi Jinping ad avere la regia delle eventuali riforme strutturali. Cessata l’epoca della crescita trainata dall’export, chiudere ora la fase di centralità degli investimenti a favore di un riequilibrio che porti i consumi interni a stimolare la crescita economica implica attivare un gigantesco trasferimento di ricchezza (e interessi) dalle élite alla società cinese. L’esperienza storica suggerisce che fino al raggiungimento di una data soglia di sviluppo gli interessi dell’élite dominante coincidono con la crescita economica dell’intero paese; superata tale soglia, gli orizzonti necessariamente divergono. Nella Cina di oggi questo punto di svolta pare essere stato raggiunto: qui non si tratta tanto di ridurre il volume di investimenti in senso lato, quanto di trasformare radicalmente le strutture degli incentivi e i meccanismi che presiedono all’erogazione del credito in modo che questo possa essere allocato in modo più proficuo, in definitiva traducendosi in redditi – e consumi – crescenti per la maggior parte della popolazione. Il settore manifatturiero pesante, da tempo artificialmente sostenuto con sussidi e disponibilità di capitale a costo minimo, dovrebbe subire una ristrutturazione per effetto di un accesso al credito più in linea con le condizioni del mercato, consentendo l’espandersi di industria leggera e servizi, con positive ricadute sull’occupazione, oltre che sulla sostenibilità di un ciclo espansivo che parrebbe più ragionevole stimare intorno al 6,5% annuo per i prossimi anni (sotto la soglia del 7,5% prevista dal governo). Al contempo, occorrerebbe che il governo potenziasse di gran lunga i propri sforzi per dotare il paese di una rete di welfare credibile e robusta, assicurando che la capacità di spesa del consumatore cinese non sia ostaggio di un risparmio compulsivo dettato dal timore dei “giorni bui.”
Un indirizzo di politica economica di questo genere – secondo la più parte degli osservatori l’unico capace di indurre un riequilibrio strutturale nell’economia cinese, evitando l’esplodere di una crisi debitoria per la quale non è certo che Pechino abbia spazio di manovra fiscale agevole – testimonierebbe che il partito intende corroborare la propria pretesa di monopolizzare legittimamente il potere politico nel paese in quanto “avanguardia del popolo”. Introdurre riforme di questa portata, infatti, implicherebbe di fatto liberalizzare il sistema bancario e finanziario, annullando le rendite di posizione amministrative da cui le grandi banche e imprese di Stato hanno beneficiato enormemente nei decenni scorsi a spese dei risparmiatori cinesi. A giudicare dalla nomina di competenti figure riformiste in posizioni chiave nella burocrazia nazionale – a partire dalla conferma del governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan – le prospettive sembrerebbero positive, ma a rendere estremamente difficili svolte sostanziali è lo stesso assetto del Pcc che combina un’antica cultura politica burocratico-clientelare con un approccio politico-organizzativo di stampo leninista. Una prassi di governo fondata sul consenso tra leader alla costante ricerca di un punto di equilibrio non agevola la mobilitazione di capitale politico contro i “poteri forti”. Questi ultimi fanno capo a figure che provengono dalle fila dello stesso Partito-Stato e che ruotano tra posizioni di management d’impresa (di Stato) e governo secondo logiche di carriera che guardano ai risultati di breve periodo e alla costruzione di poderose basi di arricchimento personale e patronato politico. In assenza di media liberi e di una magistratura indipendente, l’orizzonte che Xi dichiara di voler perseguire, ossia costringere il potere dello Stato entro una “gabbia di leggi e regolamenti”, è estremamente ambizioso.
Lo stesso presidente ne è ben consapevole, come lascia supporre la prudenza tattica che ha mostrato sin qui. Tanto il perseguimento di un’agenda riformista, quanto il tentativo di consolidare lo status quo presentano a questo punto incognite rilevanti per la sopravvivenza del Partito-Stato nella sua attuale conformazione. Nel primo caso è possibile che il sistema si frammenti, con problemi su ampia scala nelle relazioni principale-agente a tutti i livelli, rendendo di fatto incerta l’applicazione delle direttive emanate da Pechino. Sarebbe, poi, inevitabile l’acutizzarsi di dibattiti già molto accesi (sito in cinese), come quello che vede i sostenitori della teoria della “società popolare” opporsi a quanti propugnano concetti di società civile, cittadinanza e – in prospettiva – rappresentanza politica in senso pluralista. Nel secondo caso, una tattica di arrocco mitigata da palliativi analoghi a quelli impiegati negli ultimi anni porterebbe i problemi di oggi a riproporsi, ingigantiti, tra pochi anni, imponendo azioni ancora più drastiche con effetti imponderabili sulla stabilità interna e, invero, globale.
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