[LA RECENSIONE] Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina

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Simone Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Bari e Roma: Laterza, 2020).

Qualche anno fa, nel corso di una lezione all’Università degli Studi di Torino, ebbi modo di ascoltare l’intervento di un collega cinese sul tema dell’intelligenza artificiale in Cina. Rimasi colpito perché il docente sottolineò agli studenti come una parte dell’umanità sia pronta a mettere il proprio destino nelle mani delle macchine, siano esse computer o robot – una sorta di grande balzo che solleva inquietanti interrogativi etici e filosofici. Occorre, pertanto, collocare questo tema al centro del dibattito pubblico. Ben venga, dunque, il libro di Simone Pieranni – giornalista de Il Manifesto – che OrizzonteCina ha scelto di recensire su questo numero. Red Mirror è uno sguardo a 360° sul nuovo rapporto che nei nostri giorni si sta instaurando tra tecnologia, individuo e società, in grado di incidere sugli scenari politico-economici globali.

Si avverte un grande bisogno di testi di questo genere, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui un’ampia parte dell’opinione pubblica resta ancorata a una visione anacronistica della Cina come “fabbrica del mondo”, in cui schiere di operai sono intente a replicare prodotti e modelli industriali occidentali. Pieranni sottolinea come sia ormai vero quasi il contrario: “Dopo anni di imitazione da parte della Cina di tutto quanto era prodotto in Occidente, è l’Occidente – oggi – che guarda alla Cina per trovare nuove idee e nuovi utilizzi per le proprie «invenzioni»” (p. 7). Cinque sono i temi che l’autore affronta nel testo: la nuova Silicon Valley e le smart cities cinesi, la sinizzazione dell’industria digitale mondiale, il sistema dei crediti sociali, e la ricerca in ambito hi-tech – questioni che OrizzonteCina approfondisce nella rubrica STIP a cura di Francesco Silvestri.

Per Pieranni il successo cinese è frutto di un costante investimento nel digitale, che risale almeno agli anni Novanta del secolo scorso: “Mentre gli USA erano indaffarati a scovare nemici in giro per il mondo e l’Europa cominciava a ripiegarsi su sé stessa alla ricerca di un’improbabile struttura politica comune, i cinesi ponevano le basi del loro attuale successo” (p. 20). Scorrono davanti ai nostri occhi personaggi come Ma Huateng (oggi conosciuto come Pony Ma), che nel 1998 – allora ventisettenne – fondò Tencent e, partendo da un sistema di messaggistica (QQ) ispirato da un software israeliano, avrebbe sviluppato WeChat, la super-app, o il “portale dei portali”, che ha rivoluzionato la quotidianità dei cinesi. Grazie al collegamento con il proprio conto corrente bancario, WeChat permette di svolgere ogni genere di attività socio-economica, dagli acquisti alle prenotazioni di hotel e mezzi di trasporto (incluso il taxi), alla richiesta di un finanziamento in banca, all’impegno di fondi come caparra per un contratto di affitto, alla partecipazione a eventi… Su WeChat è persino possibile raccogliere i documenti per la celebrazione del matrimonio, e, quando si è stanchi del compagno o della compagna, divorziare. WeChat ha mandato in un solo colpo in soffitta il denaro contante, la carta di credito e anche, grazie alla condivisione dei contatti tramite il QR code, i biglietti da visita. Insomma, “in Cina lo smartphone è WeChat. E WeChat sa tutto di ognuno di noi” (p. 5).

Un tema cruciale che attraversa il libro, infatti, è quello della disponibilità dei big data, la vera miniera d’oro del XXI secolo. Usando WeChat per tutte le principali attività di interazione sociale quotidiana, gli utenti consentono automaticamente alle aziende di conoscere abitudini, gusti e preferenze, che, opportunamente rielaborati dagli algoritmi, si traducono in nuove proposte commerciali difficili da rifiutare, in un turbinio continuo di pagamenti, spostamenti, opportunità. A un certo punto l’autore si chiede – se è vero che WeChat permette di risparmiare tempo – come il cinese medio intenda passare questo “tempo ritrovato”, e la risposta paradossale è “forse a stare al cellulare” (p. 5). La pervasività dell’utilizzo di WeChat in una popolazione di 1,4 miliardi di persone, all’interno di un paese autoritario in cui non è garantita la privacy, genera una mole impressionante di dati che sono, come vedremo, la condizione necessaria per dare vita a un sistema compiuto di intelligenza artificiale. Per questo aziende come Facebook invidiano WeChat e aspirano a poterne seguire l’esempio in Occidente. Il problema, per l’autore, è che, se ciò dovesse avvenire, in futuro i cittadini europei (e non solo) potrebbero trovarsi di fronte alla scelta obbligata di dover consegnare i propri dati alle imprese statunitensi, oppure alle autorità cinesi, poiché in Cina la porosità dei confini tra Partito-Stato e mercato è sempre più evidente, rendendo possibile un sistema di sorveglianza con tratti orwelliani. Senza contare che il caso Snowden ha evidenziato come anche in Occidente i governi siano alquanto propensi a monitorare le comunicazioni e gli spostamenti dei propri cittadini.

La sorveglianza a tutela della tranquillità dei residenti sarà garantita anche nelle smart cities, le città intelligenti del futuro. Qui si potrà godere di una vita paradisiaca: strade pulite, con traffico scorrevole grazie alla diffusione dei veicoli a guida autonoma, in grado di interagire con i semafori; case che si autogestiscono e liberano gli abitanti da noiose incombenze, dotate di rete 5G che permette una diffusione capillare dei servizi dell’internet delle cose (IoT, Internet of Things); e infine servizi online ovunque, dispensando l’umanità dalle code ai negozi e dalle pastoie burocratiche degli uffici. Anche in questo settore la Cina è all’avanguardia, disponendo già oggi di cruciali risorse naturali quali le terre rare, indispensabili per la produzione di molte apparecchiature elettroniche, e della tecnologia necessaria per trasformare in realtà conurbazioni apparentemente futuristiche.

Pieranni – che racconta anche il nuovo progetto della Xiong’an New Area, nella Provincia dello Hebei, a circa 100 km da Pechino – riflette sul fatto che le smart cities potranno accogliere solo un limitato numero degli abitanti della Terra e si domanda se approderemo a uno scenario distopico finale (già mostrato in una serie televisiva brasiliana) in cui due classi di cittadini saranno separate da un fossato (fisico) oltre che da un incolmabile gap di reddito. Vi è da chiedersi se ciò non rappresenti una variante estrema delle gated communities già così diffuse anche in Occidente. L’esempio delle città ipercontrollate è ormai imitato in tutto il mondo, tanto che “il mercato globale della videosorveglianza è stato valutato a 40,37 miliardi di dollari nel 2018 e dovrebbe raggiungere un valore di 95,98 miliardi di dollari entro il 2024” (p. 45).

Un altro tema ricorrente nel libro – e che sta particolarmente a cuore all’autore – è il trattamento riservato ai lavoratori, certo non in linea con gli standard occidentali. Mentre anni fa le notizie delle pessime condizioni di lavoro nei reparti di assemblaggio di Foxconn, nel Guangdong, fecero il giro del mondo – suscitarono scalpore i numerosi suicidi tra gli operai – pare nessuno si inquieti per la replicazione di quel modello nel settore informatico. Nella Innoway, la zona di Pechino vicina alla fermata Zhongguancun della metropolitana, dove ogni giorno si crea il futuro digitale prossimo venturo del paese, Pieranni racconta di giovani programmatori immersi in un’attività lavorativa permanente, che non consente svaghi, affetti, o distrazioni di sorta. L’autore allude a una certa acquiescenza degli imprenditori occidentali, “attratti dalla dedizione e dalla libertà che la Cina concede ai datori di lavoro” (p. 68). Anche questo mondo ha i suoi operai, che occupano la fascia più bassa del valore aggiunto: sono gli “etichettatori”, schiere di giovani e meno giovani che ogni giorno passano al setaccio migliaia di foto e di video, “taggandone” il contenuto e facendone “mangime” per gli algoritmi e le macchine dell’intelligenza artificiale – esilarante e ironico è il richiamo al “Turco meccanico”, l’uomo-robot che dal Settecento di Maria Teresa d’Austria ci porta all’attualità di Amazon. Così come in Giappone, Taiwan e Corea nella seconda metà del XX secolo, ciò che spinge i lavoratori all’impegno estremo – l’approccio “996”, dalle 9 di mattina alle 9 di sera, 6 giorni a settimana – non è tanto un’idealtipica cultura confuciana, quanto un forte senso di responsabilità verso lo sviluppo economico della Cina, nel quadro di un diffuso nazionalismo economico, orchestrato ad arte dal Partito-Stato.

Ancora una volta, nella storia del capitalismo, un mutamento dei modi di produzione dovuto all’innovazione tecnologica – nel quadro però di una già nota tendenza allo sfruttamento della manodopera – comporterà una modifica del concetto di cittadinanza: ed è qui che Red Mirror affronta il tema dei crediti sociali. Il controllo della moralità dei cittadini ha radici antiche nella cultura cinese: “Nel 500 a.C. circa Confucio si pose come obiettivo quello di coordinare tutte le aspirazioni presenti nella società attraverso una serie di regole per mantenere l’ordine. (…) In pratica, divenne lo Stato a decidere cosa è morale e cosa no, arrogandosi il diritto di stabilirlo anche per i cittadini” (p. 98). Come nella nostra patente a punti, il sistema è molto semplice: a ogni cittadino si assegnano dei crediti, che vengono sottratti per ogni illecito compiuto. A differenza però degli sbadati autisti d’Italia – che nei casi più estremi si vedono costretti a superare nuovamente l’esame di guida – i cinesi possono vedersi comminare sanzioni assai sproporzionate. Se ti sei dimenticato di pagare una multa, ad esempio, molto probabilmente quando starai per metterti in viaggio scoprirai che, essendo finito su una “black list” o “red list”, non potrai acquistare il biglietto del treno o dell’aereo. Ritorna quindi il tema della sorveglianza dei comportamenti individuali, anche perché, in assenza di uno Stato di diritto, il confine tra l’illecito e il comportamento politicamente inopportuno è assai labile.

Va dato merito a Pieranni di rifuggire esplicitamente il “tecno-orientalismo” – l’idea che a Pechino risieda un despota asiatico deliberatamente intento a propagandare nel mondo il controllo sulle vite degli altri –, precisando due elementi. Innanzitutto, il sistema dei crediti sociali non è stato uniformemente adottato su scala nazionale, ma esistono svariati progetti locali, non sempre oggetto di approvazione da parte del governo centrale. In secondo luogo, l’apparente adesione entusiastica dei cittadini al social credit system si spiega con un’indubbia funzione di ordine, chiarezza e trasparenza in ambito economico: gli anni del turbo-capitalismo senza regole hanno lasciato in molti cittadini e aziende, vittime spesso di articolati raggiri e truffe, un profondo senso di sfiducia. In ambito finanziario, dunque, un sistema di controllo del merito creditizio appare più accettabile (come del resto avviene in Occidente, dove ogni bancario può accedere ai dati della Centrale rischi), un elemento fondamentale dell’economia “reputazionale”.

Se l’Occidente si guarda allo specchio e vede il suo futuro riflesso dalla Cina di oggi non c’è da rallegrarsi, sembra suggerire l’autore. C’è però un settore in cui prendere la Cina come metro di paragone sarebbe utile: gli investimenti in ricerca universitaria. Mentre Pechino ha investito enormemente in università e centri di ricerca, soprattutto nel settore delle scienze dure, aumentando a dismisura il numero di studenti di scuola superiore, universitari e dottorati, negli Stati Uniti la parabola della spesa pubblica per ricerca è di segno opposto: nel 1938 era dello 0,075% del Pil, nel 1944 dello 0,5%, tra il 1940 e il 1964 quadruplica (guarda caso, negli anni d’oro dell’egemonia statunitense), a inizio anni Ottanta torna all’1,2%, e nel 2017 allo 0,6% (pp. 128-129). Forse, quando i posteri scriveranno la storia del neoliberismo a cavallo tra XX e XXI secolo, evidenzieranno come credere che i soggetti privati, rispetto allo Stato, avrebbero investito più e meglio nella ricerca scientifica, sia stato uno dei maggiori errori dell’Occidente, concausa del declino relativo statunitense.

Pieranni è convinto che il sistema meritocratico cinese, temperato dalla pervasività di “network, mazzette e rilevanza del nucleo familiare” è “un modello ibrido e con molti difetti, ma sufficiente a essere pronto a diventare il modello che vincerà sugli altri nel mondo del futuro” (p. 135). Non ne sono così convinto: un recente libro dello svedese Johan Norberg – peraltro uno dei più devoti cantori della globalizzazione – dal titolo Open: The Story of Human Progress mostra come le civiltà più prospere e durature, a partire da quella romana, siano state caratterizzate dall’apertura a flussi commerciali, idee diverse, contaminazioni di popoli.[1] Se una parte di popolazione mondiale è pronta a fare il salto tecnologico e tecnocratico di cui parlava il collega cinese, non è detto che la restante parte veda in ciò un’evoluzione della civiltà e non vi si opponga – ogni cambiamento epocale suscita resistenza. Certamente, mi domando perché un dibattito di tale filosofica rilevanza non sia al centro della scena massmediatica, e piacerebbe anche sapere che cosa pensa la sinistra europea di un Partito comunista che continua a studiare Marx e governare una burocrazia leninista, servendosi degli strumenti del capitalismo di sorveglianza. Perciò Red Mirror, con la sua prosa chiara e scorrevole di grande accessibilità – il libro si legge in tre ore – è un buon passo nella direzione auspicata.


Note bibliografiche

[1] Johan Norberg, Open: The Story of Human Progress (London: Atlantic Books, 2020).


 

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