“L’attuale sistema valutario internazionale è un prodotto del passato”: il presidente cinese Hu Jintao lo ha ripetuto in una recente intervista al Wall Street Journal e al Washington Post. Stiamo per assistere, come già all’inizio del XX secolo, a un passaggio di testimone tra valute internazionali di riserva? È un interrogativo che, al di là delle dichiarazioni di Hu e di altri dirigenti cinesi, è diventato sempre più rilevante per effetto della continua ascesa dell’economia cinese e del relativo indebolimento di quella americana. Nel secolo scorso la sterlina ha ceduto il passo al dollaro Usa (confidenzialmente chiamato greenback, biglietto verde); oggi il principale candidato alla successione, soprattutto dopo le difficoltà dell’euro sui mercati, sembra in effetti lo yuan/renminbi cinese (redback, “biglietto rosso”).
Non sono pochi però gli ostacoli all’affermazione dello yuan come moneta di riserva. Due soprattutto: la valuta cinese non è pienamente convertibile e il sistema finanziario cinese è ancora troppo arretrato per svolgere un ruolo analogo a quello di Wall Street nei confronti del dollaro. Più del 60% delle riserve mondiali sono ancora in dollari Usa, nonostante ormai, su scala globale, le quote americane in termini di produzione, commercio e attività finanziarie siano circa del 20%, dell’11% e del 30% rispettivamente.
I dirigenti cinesi sembrano consapevoli della necessità di riformare lo status dello yuan. Yi Gang, direttore della State Administration of Foreign Exchange (Safe) e vice-governatore della banca centrale cinese, ha dichiarato che l’obiettivo della Safe è di ottenere progressivamente la convertibilità in conto capitale dello yuan entro il termine dell’attuale piano quinquennale (2011-2016), mantenendo allo stesso tempo il controllo sui flussi speculativi in entrata.
Di recente, alcuni segnali sembrano confermare questa strategia di graduale cambiamento: il commercio sino-russo si è aggiunto alla lista degli scambi bilaterali che possono essere regolati in yuan (le transazioni commerciali in yuan con alcuni partner vennero introdotte per la prima volta nel luglio 2009, e oggi ammontano a quasi 400 miliardi di dollari, di cui l’80% costituito da esportazioni verso la Cina, il che indica peraltro che c’è una forte domanda estera di yuan); entro metà del 2011 è attesa la prima quotazione di titoli finanziari denominati in yuan alla borsa di Hong Kong (con nuove possibilità di investimento per gli operatori dell’ex colonia inglese, che detengono, secondo la Hong Kong Monetary Authority, quasi 300 miliardi di yuan in depositi); la Banca Mondiale a gennaio ha emesso il primo bond in yuan (il cosiddetto “dim sum bond”); è stato annunciato uno schema pilota per permettere alle aziende cinesi, sempre tramite l’hub finanziario di Hong Kong, di investire in yuan all’estero. È chiaro che, qualora lo yuan dovesse affermarsi come valuta internazionale, Hong Kong (per la sua storia di trasparenza e rule of law) e non Shanghai sarebbe candidata a diventare la concorrente di Wall Street.
Peraltro, il dibattito tra economisti e politologi cinesi sull’opportunità/ necessità di internazionalizzare lo yuan è molto intenso. C’è chi sostiene l’ipotesi dell’internazionalizzazione “senza la convertibilità”: in effetti, il mantenimento dei controlli sui movimenti di capitale ha permesso alla Cina di evitare l’apprezzamento della valuta, che si teme possa ridurre le esportazioni. È largamente condivisa l’idea che la Cina debba evitare il destino del Giappone, quando nel 1985 fu costretto a rivalutare lo yen, il che contribuì alla lunga stagnazione – il cosiddetto “decennio perduto” – dell’economia nipponica.
Dopo avere ottenuto una revisione delle quote del Fondo monetario internazionale (Fmi) in suo favore (Pechino è ora il terzo azionista del Fondo dopo Stati Uniti e Giappone), alcune voci sostengono che la Cina dovrebbe chiedere, per la prossima revisione (2015) del paniere di monete che determinano il valore dei Diritti Speciali di Prelievo, l’inclusione del renminbi accanto all’euro, allo yen e al dollaro Usa a scapito della sterlina britannica (nel periodo 2005-2009, il Regno Unito non è stato tra le prime cinque potenze commerciali).
In effetti, Barry Eichengreen, uno dei massimi esperti del sistema monetario internazionale nel suo recentissimo lavoro “Exorbitant Privilege: The Rise and Fall of the Dollar and the Future of the International System” sostiene che il declino del dollaro non sia inevitabile e scontato. Assisteremo piuttosto, secondo Eichengreen, a un sistema “multipolare” di valute internazionali: la moneta americana resterà al centro, ma dovrà convivere con l’euro, lo yen e lo yuan, a meno che una cattiva gestione dell’economia americana non condanni definitivamente il greenback al destino della sterlina nel secolo scorso.
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