Le valutazioni mainstream sull’evoluzione dei rapporti tra la Cina e i dieci Paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), specialmente nell’ultimo decennio, dipingono una regione il cui ordine è sotto minaccia, se non già compromesso. Le divergenze nel Mar Cinese Meridionale, dormienti per decadi dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono culminate nel ricorso delle Filippine all’arbitrato internazionale, con gli altri stati ASEAN costretti a dover assumere una posizione precisa a sostegno di uno dei due contendenti. Alcuni Paesi ASEAN hanno rafforzato i legami militari con il Giappone, che a sua volta ha una disputa marittima con Pechino nel Mar Cinese Orientale. Il Lancang-Mekong Cooperation Mechanism (LMCM), lanciato nel 2016, ha visto la Cina relazionarsi con i cinque stati della regione del Mekong come sottogruppo dell’ASEAN. Poi persiste il dibattito costante, sebbene tattico dal punto di vista degli stati ASEAN, sull’allineamento a Washington o a Pechino per questioni di ordine regionale. La lista potrebbe sicuramente continuare a lungo.
Tuttavia è semplicistico vedere il Sud-est asiatico come poco più di un oggetto nella competizione geostrategica tra la Cina, da un lato, e gli Stati Uniti con i loro alleati sia in Asia sia in altri continenti, dall’altro. Del resto tale approccio binario ha contribuito a giustificare i conflitti in Vietnam, Laos e Cambogia, conducendo alla perdita di milioni di vite. Il Sud-est asiatico post Seconda guerra mondiale, con il suo rapido sviluppo economico dopo le distruzioni provocate dalla guerra ha funto da fonte di ispirazione per la Cina quando quest’ultima a sua volta è emersa dalla distruzione auto-imposta della Rivoluzione Culturale. Il potenziale in termini di commercio, sia come destinazione finale sia come porta verso mercati più ampi, e investimenti offerto dai mercati del Sud-est asiatico, ha spinto la Cina a selezionare le proprie quattro città costiere come “zone economiche speciali” a fine 1979. Pechino ha coltivato le relazioni con gli imprenditori di etnia cinese nel Sud-est asiatico per sviluppare i loro luoghi d’origine. Unitamente a questi legami umani venne avviato un trasferimento di conoscenze per attrarre investimenti diretti esteri (IDE); all’inizio degli anni ’80 un ex Vice Primo Ministro di Singapore (Goh Keng Swee) fu tra i consiglieri economici del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare. Il valore del Sud-est asiatico come fonte di capitale umano e sociale per la Cina può anche essere visto nella scelta di Singapore, Malaysia e Thailandia nel primo lotto di destinazioni turistiche approvate nel 1990.
Quando, nel 1992, l’ASEAN ha lanciato la propria area di libero scambio (AFTA), la Cina ha rinnovato il proprio impegno a mantenere aperto il Paese alla competizione internazionale per “imparare dal capitalismo” come aveva esortato Deng Xiaoping durante il suo celebre tour attraverso le province meridionali condotto nello stesso anno. La Cina presumibilmente ha assorbito parte degli investimenti occidentali che avrebbero potuto raggiungere i Paesi del Sud-est asiatico, considerando le sovrapposizioni nei livelli di sofisticatezza dei lavoratori e di altri input. Ma poi nel 1997-1998 venne la crisi finanziaria asiatica e la scelta di Pechino di non svalutare la propria valuta, stante il livello di sovrapposizione delle materie prime di esportazione, ha guadagnato una moneta preziosa di tipo diverso dall’ASEAN: l’amicizia. Nel 2002 la Cina e l’ASEAN hanno concluso un accordo per un’area di libero scambio (ACFTA) ed è opportuno sottolineare che la metodologia alla base dell’accordo è una copia esatta dell’AFTA. Sempre nel 2002, allo stesso ChinaASEAN summit in cui è stato firmato l’ACFTA, fu siglata una “Dichiarazione sulla Condotta nel Mar Cinese Meridionale (DOC)” il cui raggiungimento richiese un decennio. A questo punto va sottolineato che, a differenza dell’Unione Europea, l’ASEAN è un raggruppamento di stati senza l’obiettivo di un’autorità centralizzata, tanto sui membri quanto in relazione ad attori esterni. Gli stati membri si relazionano fra loro osservando il principio di non-interferenza negli affari domestici e, utilizzando i concetti di potere e diplomazia propri del mondo transatlantico, l’ASEAN viene definita un “talking shop”. Tuttavia, il programma di dialogo dei partner ha rappresentato una delle modalità uniche sviluppate dall’Associazione per evitare di essere presa con leggerezza. L’istituzione di un partenariato di dialogo significa avere uno status nel relazionarsi con il gruppo ASEAN, che cerca di esprimere un’unica voce su questioni regionali. Ogni stato membro assume il ruolo di coordinatore per uno dei dieci dialoghi dell’ASEAN e tale meccanismo aumenta le probabilità che le posizioni vengano prese sul serio senza lasciare un unico stato membro a confrontarsi da solo con le possibili pressioni esterne. Solo quando nel 1991 il Ministro degli Esteri cinese partecipò al meeting annuale dell’ASEAN come ospite del governo malese la Cina riuscì a essere coinvolta nell’esercizio diplomatico dell’ASEAN e, solo cinque anni più tardi le venne riconosciuto lo status di partner di dialogo a tutti gli effetti, mentre, per fare un confronto, gli Stati Uniti erano riusciti ad ottenerlo già nel 1977, dopo il ritiro dal Vietnam, e solo in quattro anni. In altre parole, nell’attuale contesto diplomatico l’ASEAN non è piccola e debole come viene spesso dipinta.
Una difficoltà diplomatica significativa nelle relazioni con la Cina deriva dal fatto che nel 2012, per la prima volta nella sua storia, il meeting dei ministri degli esteri ASEAN non è stato in grado di raggiungere l’accordo per un comunicato congiunto, a causa del mancato consenso sulla formulazione riguardante la questione del Mar Cinese Meridionale. Il Presidente di turno cambogiano fu considerato aver subito le pressioni di Pechino per evitare l’approvazione di una formulazione che rischiasse di mettere in cattiva luce la posizione cinese. All’interno delle più ampie speculazioni se il successore di Barack Obama alla Casa Bianca avrebbe mantenuto l’impegno per il cosiddetto “pivot to Asia” (comunemente visto come contenimento della Cina sotto altro nome), era imperativo per l’ASEAN non apparire cedevole. La Cina cerca di confutare le critiche evidenziando che essendo la natura delle dispute con alcuni Paesi ASEAN di natura territoriale e avendo l’ASEAN, in quanto gruppo, tradizionalmente evitato di prendere posizione su dispute territoriali tra i propri membri, non dovrebbe nemmeno assumere una posizione sul Mar Cinese Meridionale. Al contempo, la Cina, continuando a negoziare un codice di condotta legalmente vincolante, ha evitato che l’ASEAN si sentisse abbandonata.
In sintesi, si può concludere che avendo Cina e ASEAN una breve storia di interazioni governative formali, è naturale che entrambi i lati procedano a tentoni nella ricerca di strumenti su cui basare la propria relazione. In quanto vicini che non possono allontanarsi fra loro, in ultima analisi dovrebbero prevalere metodi fondati sulla resilienza del passato. Qual è il contributo di questo processo al più ampio tema dell’ordine regionale? Domande come questa sono forse più interessanti per gli osservatori al di fuori della regione.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini.
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