La Cina è generalmente considerata un paese autoritario e l’autoritarismo è di solito associato alla parvenza di ordine e di stabilità derivante dalla coercizione. Tuttavia nel più grande paese autoritario del mondo sembra oggi manifestarsi una significativa decadenza delle capacità di governo. Più che verso l’ordine e la stabilità, la Cina sembra andare verso un periodo di disordine e di instabilità.
Per la maggior parte degli analisti politici, diffuse proteste di massa e disordini sono il miglior indicatore della crisi della capacità di governo di un regime. Stando a tale parametro la Cina è indubbiamente intrappolata in una crisi di questo genere. Risulta che nel 1993 vi siano stati 8.700 “incidenti di massa” – un eufemismo cinese per proteste e disordini –, che sono schizzate a oltre 90.000 nel 2006. Quattro anni dopo le stime riportavano un numero doppio: 180.000. Uno dei maggiori incidenti di massa si è verificato l’anno scorso a Wukan, un villaggio nella provincia del Guangdong dove oltre diecimila residenti si sono apertamente ribellati, scacciando i funzionari locali corrotti e opponendosi ai tentativi del governo di riportare l’ordine nel villaggio.
Alle prese con crescenti agitazioni sociali, il governo cinese ha dovuto investire un’enorme quantità di risorse nel mantenimento della stabilità, vale a dire nella sopravvivenza del regime. Secondo alcune fonti la cifra spesa nel mantenimento della stabilità – che spazia dal finanziamento dell’apparato di sicurezza interna alla cooptazione di potenziali oppositori politici – ha sorpassato già nel 2010 le spese nel settore della difesa.
L’ondata di incidenti di massa – di solito innescati dalla corruzione nella compravendita di terra e da ingiustizie di vario genere perpetrate da funzionari governativi – è solamente un segnale (per quanto il più violento ed evidente) dell’aggravarsi della crisi del regime. Ci sono molti altri segnali che attestano la crescente incapacità del regime di governare il paese. Nonostante frequenti scandali su alimenti e medicinali avariati, il governo ha ottenuto sinora risultati assai limitati in questo settore. Nonostante – o forse a causa di – tre decenni di straordinaria crescita economica, la Cina è oggi uno dei paesi con la distribuzione del reddito più diseguale. Sono state adottate numerose misure per disciplinare i funzionari governativi, ma la corruzione sembra essere diventata ancor più dilagante e scandalosa. Nonostante i ripetuti sforzi del Partito comunista per adattare l’ideologia ufficiale a una società in cambiamento, la maggior parte dei cinesi la considera come del tutto estranea. Benché la macchina della propaganda continui ad essere onnipresente e onnipotente, i media cinesi hanno assunto toni decisamente liberali.
Considerata la miriade di sfide che il Partito comunista si trova ad affrontare, c’è da stupirsi che il regime sia finora riuscito a sopravvivere. Più di dieci anni fa alcuni osservatori occidentali avevano in effetti previsto l’imminente collasso della Repubblica popolare cinese (Rpc). Con loro imbarazzo, la Cina è invece diventata la seconda economia del mondo e il primo paese esportatore. Alcuni osservatori hanno così rivalutato il sistema cinese, avanzando la tesi dell’’“autoritarismo resistente”. Altri hanno sottolineato i pregi del miracoloso sviluppo economico della Cina, concludendo che il modello cinese potrebbe offrire una valida alternativa al cosiddetto “Washington consensus”.
Certo la performance economica sta al cuore della capacità di “resistenza” del regime cinese. Anche se la ricchezza è distribuita in modo iniquo tra differenti strati sociali, non si può negare che il cittadino medio abbia goduto di un sostanziale miglioramento del proprio standard di vita. Oggi turisti e uomini d’affari cinesi girano per il mondo, alla ricerca di beni di lusso e di opportunità d’investimento. I cinesi non godranno di grandi diritti politici, ma la gran parte di loro beneficia dei vantaggi tangibili di un’economia in espansione e della crescente influenza della Cina sulla scena internazionale. In un paese che ha attraversato un lungo periodo di umiliazione straniera e di totale povertà, la combinazione di prosperità economica e di ascesa internazionale rappresenta senz’altro una solida base di legittimità.
Tuttavia l’economia cinese non potrà continuare a crescere ai tassi attuali per sempre. Vi sono già inequivocabili segnali di un rallentamento, prodotto in parte dalla crisi finanziaria e in parte dal riaggiustamento macroeconomico operato dal governo. Quando la torta economica smetterà di crescere molte delle questioni messe sinora in sordina torneranno in primo piano: per esempio la disoccupazione, il degrado ecologico, il debole sistema di assistenza sociale, l’accesso all’istruzione, il divario tra città e campagna, gli squilibri regionali. Nessuna di queste sfide è peculiare alla Cina: ogni paese in via di modernizzazione ha sperimentato queste sfide in vari gradi e forme. Ciò che le rende particolarmente complesse per il regime cinese è però il fatto che esse si presentano in un momento in cui le sue capacità di governo appaiono in declino.
Negli anni Sessanta, Samuel Huntington, allora impegnato in uno studio sull’instabilità politica nei paesi in via di sviluppo scriveva: “In Asia, Africa e America Latina era in atto un declino dell’ordine politico, un indebolimento dell’autorità, dell’efficacia e della legittimità del governo. Vi era una carenza di senso civico e di spirito pubblico, così come di istituzioni politiche in grado di dare significato e direzione all’interesse pubblico. A dominare la scena era non già lo sviluppo, bensì la decadenza politica.” Ciò che Huntington scriveva circa mezzo secolo fa descrive con esattezza la situazione politica della Cina di oggi. Sei decenni di governo comunista e tre decenni di sviluppo economico non hanno portato istituzioni politiche in grado di governare un paese popolato da un miliardo e trecento milioni di persone. Al contrario, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di decadenza politica, il cui esito è oltremodo incerto e dipenderà sia dal Partito comunista che dal popolo cinese.
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